Era il 1979 e,ormai contagiato dalla febbre di Grecia,insieme con mio cugino Ottorino,non mancai di reiterare una capatina estiva in quella terra che affascina. Avevamo pernottato a Nafplion,incantevole posto sul mare, nel Peloponneso,dove trovammo alloggio in una pensione privata,dato il gran numero di turisti che aveva riempito tutti gli alberghi.
Lo spettacolo dell’affollatissimo lungomare illuminato come a festa e dell’invitante odore di fritture di pesce proveniente dai tanti ristoranti ci fece venire l’acquolina in bocca.E non potevamo esimerci dal soddisfare le urgenze del nostro palato molto sensibile alla fragranza degli odori di quella cucina. Prendemmo posto.Il cameriere propose “Kalamarakia” e noi, in coro : “kalamarakia”,avendoli già adocchiati sui tavoli dei vicini.
Direte : beh,dove sta la novità?
Ve lo dico io dove sta la novità.Quei “kalamarakia” non erano soltanto calamari,ma erano piccoli calamari interi,tenerissimi,di quelli fritti che si sciolgono in bocca,quelli che da noi,mi ricordo, da bambino, li potevi trovare con estrema facilità e che,oggi, sono diventati una rarità.
E poi,accompagnati da quella ricca insalata greca,di pomodori, cipolla, cetriolo a fette,olive nere di Kalamata,con su una bella fetta di “feta”,formaggio pecorino tenero salato,ed una ricca spolverata di origano,condita col prezioso olio d’oliva.Il tutto da annegare nel,se pur aspro,dolce vino resinato,per palati che se ne intendono .
Sono sicuro di avervi fatta venire l’acquolina in bocca,e mi sento in colpa,sapendo che a questi ingredienti,pur nella disponibilità della nostra cucina,viene a mancare la reperibilità dei“Kalamarakia”. E,poi,una cosa è mangiarli ascoltando le note della “Danza di Zorba” o di “Barba Jani Kanatà”, stringendo la mano della turista di turno americana o francese,altra cosa è ascoltando,magari, Mina,e accontentarsi degli sguardi fugaci di qualche autoctona già doverosamente impegnata…
Insomma l’atmosfera greca è il “valore aggiunto” a quel sogno. Annegammo,poi,quel sogno,in un sonno profondo conciliato dal vino resinato che non conosce e non provoca gli effetti malefici dei vini trattati con bisolfito.
L’indomani,seguendo,più che un programma,un impegno etnico, partimmo alla ricerca di paesi albanesi (arbërorë) di Grecia. Ci fermammo ad Argo,a pranzare.Quand’ecco spuntare nella sala,Michele Placido.E siamo nel ‘79.Il successo de ”La Piovra” era ancora di là da venire,sebbene,con “LA ORCA”,aveva già dimostrato,pur giovanissimo,capacità artistiche che io voglio ritenere di lvello elevato,”Piovra” o non “Piovra”. Con molta affabilità,avendo intuito dalla macchina parcheggiata fuori,che eravamo italiani,si diresse al nostro tavolo e,con fare disinvolto e rispettoso ci chiese: “come va ragazzi, vi trovate bene in Grecia?”
Ed io,altrettanto premurosamente, lo invitai a sedersi con noi. Ringraziò,ma disse che era con altre persone che sopraggiunsero. Si sedette un attimo,mentre gli altri,due uomini ed una donna aspettavano in piedi.
Disse che era in Grecia per una breve vacanza e chiese se anche noi eravamo in vacanza.Confermai ma aggiunsi che eravamo arbëresh e approfittavamo per fare una ricerca sui paesi albanesi di Grecia.
Un lampo di gioia gli illuminò lo sguardo e aggiunse: Io avevo una zia arbëresh,in Basilicata,presso la quale ho trascorso le più belle vacanze della mia infanzia,sia per le premure che aveva nei miei confronti,sia per gli squisiti manicaretti e sia per quei saporosi dolci della sua tradizione che confezionava con abile maestria.
A questo punto decisi di dare al discorso un tono più elevato e mi complimentai con lui per la magnifica interpretazione del giovane bandito nel film “LA ORCA”,in cui aveva manifestato capacità e talento da attore navigato,ma che,poi,non avemmo più modo di verificare,non avendolo più potuto vedere in film come nelle aspirazioni di chi,fiducioso,aveva creduto nella sua bravura. Non se ne adontò,ma con garbo spiegò che,negli ultimi tre anni, aveva avuto la grande opportunità di lavorare con Streheler al Piccolo di Milano,chance irrinuncibile a chi ha ambizioni serie, anche se questa “eclissi” l’aveva allontanato dalle sale.
E quì gli feci un’altra rivelazione,confessandogli che,pur sapendo benissimo il suo nome,Michele,non ricordavo,e ne chiedevo scusa,il suo cognome. E lui,con un sorrisetto malizioso e compiaciuto : Placido. Ancora una volta avevo colto nel segno,riscuotendo il suo gradimento per uno che,quasi affettuosamente,si ricorda del tuo nome ma,da sbalordire,non del cognome.Lo sentii “amico”,e forse anche soddisfatto di questi risvolti imprevedibili.
E poi il colpo finale.
-Ma tu saprai certamente che rassomigli moltissimo ad un attore tedesco di cui,data la labilità della mia memoria,ovviamente,non ricordo più il nome.
E lui,Con una vena di compiaciuta soddisfazione:lo so,Horst Bucholtz. Tutti questi minuziosi particolari della sua vita,di cui ero a conoscenza,pur affetto com’ero da un’apparente scarsa memoria, dovettero dargli l’impressione di trovarsi di fronte ad uno che,se pur 4distratto,sapeva assegnare valenze e valori artistici. Quando partimmo ci avvicinammo al suo tavolo e lui volle alzarsi dalla sedia per abbracciarci fraternamente.
Probabilmente l’impatto con le mie “distrazioni”gli aveva data una ricarica di voglia di successo,mettendo da parte le stucchevoli banalità dei caramellosi complimenti da sciocchi fans e,magari, l’immancabile richiesta di autografo. Ma erano altri tempi. E lui non era ancora andato a girare,per i russi,un mediocre film in Afghanistan,fidando,forse troppo,nella ineluttabile vittoria sovietica . Ed io,io non immaginavo che sarei diventato,addirittura…scrittore, o…giornalista o chissà che cos’altro,che nemmeno io riesco a poter immaginare.
Ciao,Michele.
Ernesto SCURA