Continuo a ricevere con mia profonda ammirazione le poesie del poeta coriglianese Domenico GODINO (detto MECO), ho avuto già modo di apprezzare le sue precedenti poesie: “Autis-monello, Donne, Fratello, L’autismo, Le mamme, Le stretto indispensabile, Vivo di ricordi”, pubblicate in AA.VV: “LE TUE PAROLE”, pag, 219, Roma, collana diretta da Maida Rocci; oggi se ne aggiungano altre:”Crederci sempre…arrendersi mai…. Buona Domenica, Italia fragile”.
Leggo non solo le sue parole, apprezzo in modo particolare la sua profonda tonalità fonica nella recita. Poesie tutte dedicate al forte sentimento umano esistenziale di una amarezza e sofferenza per la perdita prematura del caro fratello “SANTINO” e della cara mamma “CARMENIA”. Il tema della sofferenza, del dolore e della ricerca della verità sono i cardini della poetica godiniana che spesso si scontrano con le difficoltà e persino con le brutalità della vita. La parola poetica, in questa prima raccolta, è decisamente essenziale e l’intero testo è spesso composto da poche frasi, la rottura dei legami sintattici e logici tra le cose prosegue in questa seconda raccolta, come possiamo vedere, il tema della sofferenza riemerge in modo preponderante, in cui GODINO descrive in modo toccante e magistrale il suo stato d’animo e l’immensa sofferenza per la perdita prematura dei suoi cari familiari. E’ molto importante il contenuto nei testi delle sue poesie, ma ancora più importane e decisivo è come il poeta riesce a trasmettere il messaggio attraverso le immagini che è in grado di suscitare…il suono, il ritmo, la musicalità del verso.
L’intensità della sua sofferenza e della sua solitudine, non si esaurisce nel silenzio della parola, nella cancellazione d’ogni traccia di scambio con l’altro; se lo spazio, il mare, la morte hanno una loro solitudine, perché la loro infinità sovrumana taglia fuori l’uomo, esiste un silenzio ancora più profondo, più fitto e inaccessibile. Nella finezza umana c’è dell’infinito come nel mare e nello spazio, del mistero, davanti al quale si è irrimediabilmente soli.
Il GODINO nelle sue poesie, sembra cogliere il limite della parola e dello scambio con l’altro. Per quanto si possa comunicare, entra in empatia con un altro essere, c’è qualcosa in lui di infinitamente enigmatico, che fa resistenza non solo alla condivisione reciproca, ma alla stessa comprensione da parte del singolo. Ne deriva una solitudine e una sofferenza radicale che prescinde dalla presenza o dall’assenza di un partner o di un amico, quindi un confronto schietto, sincero con la nostra parte più profonda, inconscia, e socialmente non condivisa ci porta inevitabilmente ad una sofferente e tragica esistenza.
La semplicità e l’essenzialità della costruzione e del lessico, rendono con efficacia la contrapposizione luce-buio, vita-morte in cui si delineano i due aspetti dell’autore, l’uomo e il poeta: L’uomo anela al recupero di un qualsivoglia contatto fisico con l’amata, una carezza, un bacio; da uomo illuminato, cultore della poesia e dell’arte creativa, non fa altro che partire dalla sua condizione umana ed esistenziale. Il dolore è quasi invocato sottovoce, con pudore intimamente, in quanto GODINO sa bene che neanche la poesia riesce a consolare e si rifugge nel ricordo non nostalgico però ripercorrendo fatti e momenti della vita vissuta con i suoi cari, dunque dal dolore di un proprio caro se ne esce con la speranza. Come afferma TOLSTOJ in “GUERRA E PACE”, se non ci fosse la sofferenza, l’uomo non conoscerebbe i propri limiti, non conoscerebbe se stesso. Il dolore, quando è patito dalla perdita dei propri cari, per forza di cose annulla la coscienza e il poeta GODINO si può ritenere fortunato in quando riesce a sdrammatizzare trovando sfogo nella poesia.
Nel leggere la poetica godiniana, la memoria mi riporta agli anni settanta, quando seguivo i corsi di Letterature Comparate alla prestigiosa Università di URBINO “CARLO BO”, con il grande poeta Mario LUZI sul rapporto poetico tra Charles BAUDELAIRE e Edgar ALLAN POE.
Il destino li accomuna non solo nella poesia ma anche nella morte: Baudelaire morto giovanissimo a solo 46 anni (1821-1867) e POE ancora prima a solo 40 anni (1809-1849).
Edgar Allan POE, le sue opere macabre ispirarono intere generazioni di poeti e scrittori in modo particolare Paul VERLAINE, uno dei poeti maledetti più longevi, nonostante la sua tormentata, miserabile, promiscua esistenza, pubblicando nel 1884 :”Les poètes maudits”, tradotto e pubblicato in Italia da diverse Case Editrici: “I poeti maledetti”, una raccolta comprendente alcune tra le migliori delle sue opere, purtroppo l’idea dell’intellettuale, dello scrittore e dell’artista perseguitato da un destino avverso non era certo cosa nuova, anche i suoi amici e colleghi furono attratti dalle sue poesie come Tristan Corbière, Arthur Rimbaud et Stéphane Mallarmé.
Charles BAUDELAIRE, dopo aver assistito con orrore al sorgere implacabile dell’era industriale e al culto del profitto. Che ruolo può essere riservato all’arte e alla poesia in una società simile?
La sua raccolta lirica intitolata :”Les Fleurs du Mal”, anch’essa tradotta in Italia e pubblicata da diverse case Editrici:” I Fiori del Male”; è un viaggio immaginario che il poeta compie attraverso l’inferno che è la vita. Più maledetta di così.
Anche se fu il drammaturgo e scrittore francese Alfred de Vigny a giocare per la prima volta con la nozione romantica di “maledizione” nel suo romanzo “STELLO”, nel 1832. Il concetto di “poeta maledetto” nacque vent’anni dopo in una pièce più strazianti de “I Fiori del Male” di Charles Baudelaire, “Benedizione” (“Perché non ho partorito un nodo di serpenti, piuttosto che nutrire questa maledizione!”) e già al tramonto del secolo, l’opera omonima di Paul Verlaine fissò il termine nell’immaginario collettivo. I poeti maledetti è una raccolta delle migliori creazioni di un gruppo di autori appartenenti al suo circolo artistico e personale, raggruppati in un arco di tempo ristretto che ha il suo baricentro nel 1873.
Non a caso ho associato la poetica godiniana ai poeti maledetti francesi, entrambi Maledetti in quanto misconosciuti dalla società, dai salotti borghesi, dalla critica altolocata, entrambi Maledetti perché sottovalutati e derisi per la loro poesia, specchio di un animo nomade, surreale, sofferente, ancora Maledetti per la voglia di vivere e morire nello stesso istante, per l’abbandono totale al vizio e al piacere assoluto, per il desiderio di provocare una società sorda e cieca al cambiamento.
Ammiro umilmente questa lingua forte nelle poesie godiniane, semplice nella sua incantevole tonalità, meravigliosamente corretta, e questa scienza, in fondo del verso, questa rima rara se non ricca fino all’eccesso, percorsa da un intenso malessere, che rivela l’essere inquieto e straziato che si annida nelle viscere del poeta, è una poesia che rapisce e scuote la dimensione interiore di chi l’ascolta, è un concetto filosofico del sublime: sconvolge, impaurisce, ma allo stesso istante affascina, meraviglia.
Prof. Giovanni FERRARI
Dipartimento di Studi Umanistici
Università degli Studi di Napoli “Federico II”