Io non so quanti di voi non hanno ancora letto il capolavoro di Ivo Andric,”IL PONTE SULLA DRINA”.Spero pochissimi. E chi non l’avesse ancora fatto,corra ai ripari,colmando una gravissima lacuna culturale.
Se poi,non solo non ha letto “IL PONTE SULLA DRINA”ma, con irresponsabile leggerezza si è sobbarcato alla lettura di “La collina del vento” di Carmine Abate,allora la sua lacuna diventa un “vuoto spinto”,specie se la scelta di quella lettura è stata ispirata dalla servile critica di recensori un tanto al chilo, spesso ,purtroppo,di livello accademico,che affollano la pagina culturale dei grandi quotidiani nazionali.
Qualcuno dirà: ma,in fondo,ha vinto il “Premio Campiello”. Ed io dovrei ribadire: allora non sai che “il ponte sulla Drina” ha vinto addirittura il “Premio Nobel” per la letteratura? Ma mi guardo bene dal cadere in questa trappola che tanti danni ha creato alla cultura mondiale,avvalorando il letale assioma che “è il premio che dà merito al romanzo” e non, come dovrebbe essere, “ è il romanzo che merita il premio”.
E allora qualcun altro,nella certezza di smentirmi, porterà l’esempio del “meritato” Nobel a Dario Fo che annienta le mie convinzioni sulla non credibilità dei premi letterari. Ed io:Ecco,appunto citando Fo mi stai dando piena ragione, confermando di quanto siano caduti in basso i riconoscimenti letterari,almeno da qualche decennio a questa parte,e forse ancora prima,se indaghiamo sulle avversità che hanno dovuto affrontare i veri capolavori per conquistarsi la meritata gloria.
Se si pensa che “Il Gattopardo”,il più grande romanzo italiano del ‘900,non fu preso in considerazione,nemmeno per una eventuale pubblicazione,da quel guru dell’Einaudi che era Il “compagno” Elio Vittorini,tutto PCI,e “Resistenza”,e “Lotta Sindacale”,e “Terra ai contadini”,che bocciò quel capolavoro perchè “non organico”con la linea culturale del Partito. Per fortuna vi rimediò quel galantuomo di Giorgio Bassani che, dopo attenta avida lettura ne consentì la pubblicazione che ottenne uno strepitoso successo,conquistato direttamente sul campo,riscuotendo l’inatteso vasto consenso di pubblico. (Grazie,Bassani).
Ma torniamo a “Il ponte sulla Drina” che il Nobel se lo meritò onorevolmente in epoca non sospetta,quando ancora le giurie erano alquanto affidabili e che,comunque,il pubblico dei lettori, subito dopo,ne convalidava il merito.
Non che io,già sin da allora scetticamente diffidente dei premi letterari,l’avessi letto,sull’onda del successo,subito dopo l’assegnazione del Nobel.Lo lessi molto dopo,a freddo,potendo apprezzare il suo rigore storico e l’aderenza della narrazione alla realtà luoghi,dei fatti,e dei misfatti commessi all’insegna della ferocia ottomana,superbamente raccontata nella sia pure ripugnante descrizione dell’mpalamento,affidato alla alle cure di compiacenti zingari ed eseguito con tecniche“scientifiche”.
Ne rimasi sconvolto,ammirato ed entusiasta della capacità descrittiva di quell’autore nel far vibrare le più intonate corde di uno struggente pathos (Grazie Andric).
E quel romanzo e quelll’autore,entrarono a far parte del mio Pantheon,appunto per la veridicità storica .
Ma il riscontro più emozionante lo ebbi alcuni anni dopo. In uno dei miei tanti viaggi alla volta della Romania,mi capitò di scegliere il percorso Croazia Bosnia Serbia.In Bosnia costeggiai un fiume,dalle inconfondibili acque verdastre,che poi,con improvvisa svolta quasi ad angolo retto,dovetti attraversare su di un “ponte” monumentale.Ma,più che un ponte,è un lungo viadotto ad undici arcate,leggermente cuspidate,che ne rivelano la particolare tecnica costruttiva e la cultura ottomana.
Quando fui sulla sponda opposta mi resi conto che in tutto quel contesto c’era qualcosa di familiare,che non riuscivo facilmente a individuare,e che,comunque,addirittura mi conturbava. Scesi dalla macchina e ripercorsi a piedi quel ponte,e quando arrivai alla mezzeria,in corrispondenza del sedile della balconata centrale,finalmente mi resi conto.Avevo percorso l’impalcato del ponte dei miei sogni e dei miei incubi.Era IL PONTE SULLA DRINA. E lo confermava,ai capi,la targa,oltre che in caratteri cirillici,anche latini: REKA DRINA,che,correttamente letto,in serbo-croato suona : “rieka drina”,dove rieka sta per fiume.
Non ricordo se provai qualche emozione.Credo di esserci andato molto vicino.
AMARE CONSIDERAZIONI (dove amare non è verbo,ma aggettivo). È convinzione comunemente ricorrente che “I PONTI UNISCONO”.
L’abusato impiego di questo motto,da parte dei soliti “pacifisti”,che mira ad esaltare la funzione idilliaca del ponte,non solo in funzione di raccordo socio economico ma,soprattutto,come mezzo unificante di culture,etnie,razze e religioni,all’insegna della tolleranza,trova la negazione più loquace di tutto ciò,proprio nell nostro Ponte,a cavallo del fiume Drina che,manco a dirlo,separa proprio culture,religioni e, ormai,forse anche razze,profondamente radicate ed inconciliabili.
Già la sua costruzione,opera imponente per quei tempi,fu voluta dal sultano turco,certamnente per unire,sì,ma unire unicamente il suo vasto impero alla Capitale,Istanbul,cioè rafforzare l’islamicità di quelle terre di conquista,non certo pe favorire anche l’evolversi di tutte le altre fedi religiose che,anzi,furono,con violenza, proibite . E quel Ponte,già fin dalla sua costruzione,fu teatro di spettacolari orribili manifestazioni di tortura (altro che strumento di pace),che poi ne accompagnarono nei secoli il tragico susseguirsi.
La barbarie non si limitò al solo periodo ottomano,ma prosegui, con inalterata violenza anche dopo,anche sotto altre dominazioni, ed altri riti ed altri miti,fino agli ultimi e più recenti disastri della terrificante “pulizia etnica”,che avvalorò la funzione disaggregante di quel ponte:di là musulmani,di quà ortodossi che,schierati ai due capi del ponte,si guardano in cagnesco,pronti,all’occorrenza,ancora a scannarsi.Perchè non solo la violenza genera altra violenza,ma chi la subisce,poi,a sua volta,è capace di altrettanta violenza.
Perciò,per carità,NON PARLATEMI DI PONTI CHE UNISCONO.
Solo la mitezza di carattere elegiaco,del grande Ivo Andric,poteva indurre il grande scrittore a produrre quel capolavoro che mirava, tra l’altro,ad avvalorare l’immagine di una Jugoslavia multiculturale, sperando,forse,che la mano pesante di Tito ne favorisse l’assurda realizzazione.Sembrava che i fatti gli dessero ragione.
Ma non sopravvissero più di tanto,lui e Tito,per verificarne l’utopia, sebbene rispettivamente filtrata in culture diametralmente opposte: l’una intrisa di eccessiva fiducia nella bontà umana,l’altra facente leva sulla violenza intesa come levatrice della storia.
Morto Tito,i nodi vennero tutti al pettine,e i suoi ipocriti inviti alla fratellanza delle varie componenti etnico-religiose di quei popoli, crollarono tutti,insanabilmente,davanti a quel ponte che,pur nella maestositá del suo impianto architettonico,rimane a rappresentare il più loquace monumento alla violenza.Altro che “ fratellanza “.
E ribadisco: NON PARLATEMI DI PONTI CHE UNISCONO.
Grazie
Ernesto SCURA