La festa di Sant’Antonio che si celebrava al mio paese negli anni dell’ultimo dopoguerra – pur se circoscritta all ‘omonimo quartiere – era vissuta in maniera meno appariscente rispetto all’altra festa che si celebrava in onore di S. Francesco , patrono della cittadina ; pur tuttavia veniva vissuta assai intimamente dai miei compaesani: vuoi perché il Santo taumaturgo era caro al cuore dei miei concittadini; vuoi per l’affetto che essi nutrivano per la bella e monumentale Chiesa a Lui dedicata; vuoi per la bella Villa che assicurava frescura e pace, vista la calura che nel mese di giugno cominciava a farsi sentire in maniera più accentuata .
Centro di raccolta per i festeggiamenti era appunto la Villa comunale : allora dimora di belle piante . In essa veniva innalzato un piccolo palco per i musicanti e si allineavano le poche bancarelle dei venditori ambulanti .
Attigua alla Villa c’era uno spiazzo dove sorgeva una vasca circolare , sovrastata da un rialzo marmoreo con puttino da cui fuoriuscivano zampilli che la ricolmavano d’acqua .
La vasca detta < Fischija > serviva come abbeveratoio per gli asini ed i muli che , facendo ritorno dalle sottostanti campagne , si concedevano una pausa di ristoro : prima di iniziare la ripida salita che porta alla chiassosa (un tempo ) piazzetta dell’Acquanuova .
In uno spiazzo attiguo veniva issato , in occasione della festa del 13 giugno , un alto palo – il palo della cuccagna – in cima al quale venivano appesi salsicce e soppressate paesane , caciocavalli dei migliori massari del luogo e qualche bottiglia di vino delle migliori cantine locali .
Tutto questo bendidio , che penzolava dall’alto , veniva dato in premio a chi , avvinghiandosi al palo , fosse stato capace di guadagnarne la sommità . Il palo in precedenza era stato cosparso di una cera speciale che rendeva difficile la presa delle mani su di esso … e pressoché disperata l’impresa di giungere in cima .
Si cimentavano nell’impresa giovinotti , ragazzi-scoiattoli , persone adulte abili e forzute . Chi riusciva ad aggrapparsi al palo per un metro d’altezza , chi per due , chi per niente , chi per molto di più : tutti ripiombavano a terra tra risate e scherni popolari . La gente non mancava d’incoraggiare i più bravi arrampicatori .
C’era un giovincello , smilzo e piccolo , — che noi ragazzetti chiamavamo Soricillo – che cominciava la scalata con tale abilità e destrezza che gli spettatori incoraggiavano a tal punto che non disperavano che potesse portare a termine felicemente la sua impresa .
Anzi lo incoraggiavano metro per metro gridandogli : “ Bravo Soricillo , coraggio che ce l’hai fatta ! ” Ma mentre egli stava per agguantare qualcosa di tutto quel bendidio … e a portata di mano il caciocavallo penzolante … improvvisamente e rovinosamente scivolava all’indietro per tornare ai piedi del palo … tra lo stupore ed il dispiacere generale . Intanto si preparavano nell’impresa altri concorrenti .
Ma la figura di Soricillo mi tornò spesso nella mente quando, in anni seguenti , cominciai a studiare filosofia e Soricillo divenne per me il prototipo dell’uomo e della sua fatica , spesso proteso verso una meta agognata che assai spesso si rivela irraggiungibile !
(dai miei libri: GENTE DI PAESE / GENTE DEL SUD )