Dopo i primi sguardi esplorativi lanciati da lontano, dopo poche e furtive parole scambiate da una finestra o da un balcone, dopo qualche anonima e romantica serenata, arrivava il giorno in cui il giovane doveva uscire allo scoperto, dichiarare, cioè, ufficialmente alla famiglia della ragazza le sue intenzioni. Iniziavano, quindi, tra le due famiglie i primi contatti indiretti che avevano come unico scopo quello di sondare le disponibilità reciproche ad un eventuale matrimonio. Questi primi contatti venivano affidati o ad una persona di riguardo (parroco, medico di famiglia, ricco proprietario terriero) o ad una persona di fiducia (compare, parente intimo, vecchio amico di famiglia).
Un vero e proprio “rito”, quello del fidanzamento nella Corigliano di una volta, del quale rinveniamo preziose notizie nei racconti tramandatici dall’indimenticabile studioso di storia locale Antonio Russo nella sua opera “‘A Purtella” e accuratamente riportate dal professore Giovanni Scorzafave nel suo sito (www.coriglianocal.it).
“Se il giovane veniva considerato un buon partito, iniziavano le trattative dirette ed ufficiali. Dopo qualche incontro riservato ai capifamiglia, incontri che si riferivano quasi sempre alla consistenza dotale, si stabiliva, di comune accordo, il giorno dell’entrata ufficiale del giovane in casa della promessa sposa, il giorno, cioè in cui si purtàva ru matrimmonijƏ. Il giorno stabilito, la famiglia del pretendente, preceduta da un ragazzo (poteva appartenere alla famiglia) che portava ‘na ggistellaƏ, si recava a casa della giovane. Nella cesta vi era sistemato in bella mostra del pesce ‘i prima (merluzzo, triglie, saraghi, occhiate, cefali) ed in bocca ad uno dei pesci un fiore rosso e l’anello di fidanzamento. Tutte le famiglie del vicinato, a conoscenza del lieto evento, si facevano trovare davanti l’uscio di casa con le guantiere in mano, pronte a lanciare, al passaggio del giovane, ‘i curghjannƏ. Anche la famiglia della giovane aspettava sull’uscio per dare il benvenuto, con getti di confetti (cannillinƏ, a mmiennulunƏ, rizzƏ, ccu ru rosolijƏ), al promesso sposo ed alla sua famiglia. I parenti più intimi arrivavano alla rinfusa dopo un po’ di tempo. Portavano ai giovani fidanzati una busta con denaro, accompagnando tale dono augurale con il solito getto di confetti. La cerimonia si concludeva allegramente con suoni e balli e distribuzione di liquori e coserucƏ, dolci fatti in casa. Il ballo preferito era la tarantella, ritmata dal suono di ciaramellƏ, catarrƏ abbattendƏ, mandulinƏ, organettƏ e tummarinƏ”.
Terminato il periodo del fidanzamento ufficiale, le famiglie dei due promessi sposi stabilivano, di comune accordo, la data delle nozze. Di proposito si scartavano, perché ritenuti poco fortunati, i giorni di martedì e venerdì rispettando così il detto popolare secondo il quale “nné dai vennirƏ e nné ddi martƏ nné s’affiraƏ e nné ssi partƏ e nné ssi mindƏ pinna ‘ncartƏ”. Così pure, per superstizione, si scartavano i mesi di maggio e di novembre. La mattina del matrimonio in casa della sposa cera grande fermento per i preparativi finali e un viavai continuo di amiche della sposa, alcune delle quali (compagne d’infanzia) l’aiutavano ad agghindarsi. Indossato l’abito bianco, la sposa usciva da casa accompagnata da tutti i parenti ed amici che si disponevano in corteo su due file ed a piedi raggiungevano la chiesa. Dava il braccio alla sposa il padre, il fratello maggiore o una persona di riguardo, u bracciandaƏ, che per l’occasione indossava l’abito da cerimonia. Al passaggio del corteo nuziale tutti gli amici e conoscenti si scappellavano in segno di augurio, mentre da finestre e balconi gli auguri erano accompagnati da lanci di confetti, fra i quali, alcune volte venivano inserite delle monetine di rame.
“Dopo la cerimonia nuziale c’era il pranzo nella casa degli sposi. Per la disposizione dei posti a tavola si rispettavano regole ben precise ed inderogabili: a lato della sposa sedeva il compare d’anello, a lato dello sposo i suoi genitori e di fronte a questi sedevano i genitori della sposa; vicino al compare d’anello sedeva sua moglie e poi gli altri invitati in ordine d’importanza. Il più delle volte il bracciante non partecipava al pranzo nuziale e se decideva di andare via non veniva mandato a casa da solo, ma accompagnato da un familiare della sposa o dello sposo. Se possibile, si sceglieva un familiare giovane per ‘U matrimmonijƏ ,che doveva portare una guantiera con dolci ed una bottiglia di liquore: un semplice ma sincero atto di riconoscenza verso il bracciante. In ogni banchetto nuziale la quantità e la varietà dei cibi serviti dipendevano dalle condizioni economiche della famiglia degli sposi; quali che fossero, però, queste condizioni, veniva sempre servito come primo piatto un tipo di zitoni condito con sugo di carne e formaggio pecorino nostrano, pasta ancora oggi da noi chiamata maccarrunƏ ‘ia zitƏ; al termine del banchetto, la festa continuava sino a tarda notte con canti, suoni e ballƏ’. Dimenticavo di dirvi che al parroco, il giorno prima del matrimonio, veniva mandata a casa una gallina bianca e che il letto della sposa veniva preparato, cunzàtaƏ, il giovedì o il sabato. A quest’ultima cerimonia, eseguita con una certa aria di mistero e di discreta intimità, non partecipavano le fanciulle non ancora maritate”.
Fabio Pistoia