Nei giorni scorsi, in seguito ad un mio intervento sul Blog sono stato lusingato da una serie di commenti piuttosto contrariati rispetto al mio punto di vista. Si parlava, in tutta Italia, dello sbarco di alcune decine di profughi giunti al nostro Porto e subito ripartiti. Al netto delle giustissime rimostranze verso il governo nazionale e l’Europa (la responsabile esteri peraltro è italiana) che alle parole di solidarietà ,poco o nulla fanno seguire in termini di politiche di accoglienza, resta e si consolida uno stato d’animo collettivo che tende a diffondersi a macchia d’olio.
Complice la diffusa incertezza economica e sociale che stringe in una morsa di crescente disagio le nostre comunità. Ecco perché pur non condividendo nulla di quei commenti(peraltro ironici ma non sgarbati)ritengo sia opportuno non sottovalutarne la portata e le implicazioni che ne derivano in termini di mutamento di “clima culturale”.
Una vera “restaurazione”di principi ancestrali di “terra e sangue”rispetto a principi e valori che sembravano ben consolidati nella nostra storia collettiva.
A”quei profughi”ed ai potenziali “altri arrivi” è sembrato si volessero addebitare non solo i problemi del sottosviluppo locale dall’unità d’Italia ai nostri giorni,bensi persino le guerre gotiche e l’invasione cartaginese. L’occasione è propizia per lasciare una traccia di possibile riflessione con uno scritto di notevole spessore intellettuale. Si tratta della prefazione ,da me arbitrariamente “tagliata”per ragioni di spazio, di un volume da leggere e rileggere: (Giovanni Perazzoli, Contro la miseria. Viaggio nell’Europa del nuovo welfare)E’ un indiretto tentativo di colloquio con i miei”critici”,ai quali nonostante tutto mi sento vicino. Colgo nelle loro parole una involontaria ed inconsapevole fragilità analitica che si aggrappa a luoghi comuni abilmente disseminati dai pochi che davvero gestiscono le sorti dell’umanità. L’agitare il conflitto tra poveri è un mestiere antico che i potenti usano al pari di altri luoghi di nessuno come “la “patria”la razza,e via discendendo verso il territorio,la contrada,il condominio”.Credo invece che i conflitti debbano essere indirizzati altrove. Provando a guardare verso l’alto e non verso il basso. Verso cio’ che sta al vertice della piramide economica e non alla base.La storia qui raccontata all’autore definisce un quadro di diritti a noi italiani sconosciuto,che ,indirettamente ,ritengo possa stimolare una riflessione sulla necessità di unificare le tante esistenze marginali verso uno spazio di lotta capace di farci dire ancora”abbiamo un mondo da conquistare”.Credo verrà spontaneo domandarsi a fine lettura di che cosa dovrebbero “derubarci”:della sanità allo sbando?delle nostre infrastrutture?Del lavoro in nero?Leggere che un italiano,senza neppure conoscere l’inglese abbia percepito un salario minimo e persino due sterline per la lavanderia,servirà magari a far riflettere sul drammatico provincialismo di cui siamo vittime.
Peraltro ,a volerla dire tutta, mi sfugge di come migliaia di “migranti”possano essersi ritrovati nelle nostre case affittate in nero,oppure a fare i braccianti”veri”e malpagati nei nostri campi , nei nostri magazzini,nei nostri cantieri edili,a fare da badanti alle nostre nonne,e le pulizie nei nostri bagni. E va a finire che magari giungono da queste parti con tanto di beneplacito dei nostri bravi “padroncini”. Non credo sia gratificante azzannarsi col prossimo per raccattare le briciole cadute dalle tavole ben imbandite dei pochi padroni che sulle nostre nuove e vecchie povertà ingrassano con esponenziale voracità. Forse dovremmo chiederci se non sia il caso di rovesciarlo quel tavolo!.Solo una chiosa finale al caro anonimo che mi suggerisce un “lavoro autonomo”:potrà sembrargli strano ma da almeno quindici anni rifiuto un lavoro “dipendente”. E’ un piccolo dettaglio che dovrebbe far riflettere chi come lui ama senz’altro piu’ di me un mondo creato ad immagine e somiglianza della concorrenza. Con tutte le conseguenze del caso. La concorrenza è noto non va a braccetto con la solidarietà. Buona lettura.
Angelo Broccolo
Bristol, Gran Bretagna, 1984. Partiamo da una storia vera. Antonio arriva in Inghilterra dalla provincia italiana, ha 28 anni, un tentativo di laurea in Lettere finito fuori corso, una certa frustrazione compensata solo dall’ironia. La decisione di partire per la Gran Bretagna nasce da un programma tutt’altro che ambizioso. Vuole imparare l’inglese per poi tornare in Italia e cercare un lavoro qualsiasi. Farfuglia che vorrebbe provare a trovare un impiego come steward negli aerei.
Non ha una famiglia alle spalle che possa aiutarlo. Per chi ha le giuste conoscenze in Italia, si sa, è diverso; ma lui vive in provincia con la madre. Per «farsi una posizione», o meglio, per trovare un lavoro, un «posto», non ha assi nella manica. A 28 anni quante esperienze si dovrebbero già avere nel curriculum! Ma l’esperienza dei coetanei già laureati non lo ha incoraggiato a finire in fretta. Gli raccontano infatti dei curricula spediti come un ex voto alle aziende, o dove capitava, sempre e solo per ottemperare a una sorta di rituale scaramantico. Naturalmente, neanche una risposta.
In Gran Bretagna, Antonio inizia a lavare i piatti nella cucina di un ristorante italiano. La sera torna molto tardi. La signora inglese che gli affitta una stanza nella propria casa fa qualche domanda. Lui le racconta che lavora; e lei gli dice che, senza un contratto, è illegale. Lui alza le spalle. Lei gli ripete che è illegale. Lui la guarda interrogativo. Se non hai un lavoro, dice la sua landlady, devi andare al Jobcentre. Antonio traduce mentalmente in italiano «Jobcentre» con «ufficio di collocamento», e si dice, allora, che non serve a niente. La signora inglese insiste e lo squadra con rimprovero; gli dice anche di chiedere un sussidio di disoccupazione all’Unemployment Benefits Office, e di andare a chiedere un sussidio per l’alloggio in un altro ufficio. Antonio adesso proprio non la capisce, non sa come tradure quello che ascolta in italiano.
Lavora per due settimane. E alla fine non lo pagano. Lavorava in nero, per cui semplicemente gli dicono che non lo avrebbero pagato. Così si fa accompagnare all’Unemployment Benefits Office dalla sua landlady. Mette una firma su un foglio. Quindici giorni dopo, senza aver mai lavorato un solo giorno legalmente in Gran Bretagna, senza neanche conoscere bene l’inglese, e, soprattutto, senza essere inglese, inizia a percepire un sussidio di disoccupazione settimanale che include anche il pagamento per la sua stanza in uno dei quartieri più belli di Bristol. Si stupisce per alcuni dettagli, come le due sterline settimanali per la lavanderia. Ad un certo punto arriva in casa il visitor inviato dall’ufficio che si occupa dell’Housing Benefit. Non deve sottoporre lui a un controllo, ma deve verificare che la casa sia in ordine: fa gli interessi dell’assistito. Deve accertarsi che gli spazi e i servizi siano corrispondenti alla legge, che non ci siano speculazioni o furbizie.
Antonio ha diritto a una serie di sconti: al cinema, nei centri sportivi, nei centri culturali. Ma soprattutto, pagando una minima percentuale delle fees, può frequentare un corso di inglese full time in uno dei migliori college della città. Il corso dura diversi mesi; per frequentarlo arrivano studenti da diverse parti del mondo: arabi dei paesi ricchi del Golfo, tedeschi, francesi, italiani… Devono pagare molti SOLDI, ma lui no, non li deve pagare perché è disoccupato.(…)