Ci fu un anno,il 1979,che,invitato dall’Istituto di Filosofia,Lingua e Letteratura Albanese dell’Università di Prishtina (Kossovo), fui ammesso a frequentare il prestigioso Seminario di lingua albanese a cui partecipavano,in veste accademica,i più famosi cultori di lingua albanese di tutto il mondo. Ovviamente,io e mio cugino Ottorino,insignificanti novizi,fummo ammessi al corso “elementare” mentre i più accorsati (e tra questi i giovani studiosi arbëresh)furono destinati al corso superiore.
E non fu un caso che quei giovani studiosi occuparono,poi,tutti, le Cattedre di lingua albanese nelle miglior università italiane: Elio Miracco alla “Sapienza” di Roma;
Italo Costante Fortino all’Istituto Orientale di Napoli; Francesco Altimari all’Università della Calabria,ad Arcavacata. Io frequentai il corso elementare per il solo anno 1979. Ed imparai quel tanto che mi consente,oggi,di leggere e capire e fare conversazioni colte in quella lingua,supportata dal mio arbëresh domestico che sta alla base di tutto. In quanto a scrivere,non pretendo più di tanto,essendo già tanto impegnativo farlo in italiano.
Ciò che,comunque,mi consola è che,gli altri assidui frequentanti del corso elementare,non solo rimasero per sei anni, ”ripetenti”, al corso elementare,ma non è che sapessero cavarsela meglio di me nella conversazione e nella scrittura.
Ma l’aspetto più bello di quell’evento era l’internazionalizzazione di quella lingua che noi,magari,consideravamo umile retaggio della nostra etnia,salvo poi scoprire che era oggetto di studio e di approfondimento dei massimi cultori di filologia del mondo intero,che la consideravano la più antica (ed attuale)lingua del ceppo indo europeo.Tra i primi,se non primi,oltre ai tedeschi,gli accademici Russi (sovietici) presenti con due rappresentanze, quella di Mosca e quella di Leningrado,composta di solo donne, capeggiata dalla rigida e severa Irina. Ma procediamo con Ordine.
Il Seminario era,beninteso,tutto gratuito,compreso il vitto e l’alloggio nell’Hotel BOZUR (da pronunciare Bojur e che non ha nulla a che vedere col“buongiorno”francese)che è il nome del fiore caratteristico diventato simbolo del Kossovo. Io ed Ottorino fummo gli ultimi ad arrivare,all’imbrunire. Ci assegnarono la stanza e poi cenammo al ristorante dell’albergo.
Vinti dalla stanchezza ci addormentammo facilmente,ma l’indomani avemmo il tempo di studiare l’ambiente: L’infisso in legno della finestra lasciava passare gli spifferi d’aria che,oltre a mettere in movimento un pulviscolo stantio, muoveva la tenda che svolazzando veniva a sfiorarmi il naso scaricando gli effluvi di sostrati di sporcizia accumulati negli anni.E se ti azzardavi ad aprire le antine dell’armadio, dovevi turarti il naso. Resistemmo ancora un giorno.
La sera tutti i partecipanti ci convinsero a passare la serata al “Night”,nei sotterranei dell’Hotel. Per raggiungerlo,bisognava attraversare un lungo disimpegno in cui erano dislocate le latrine,che,per individuarle,non dovevi sforzarti a cercare le scritte W C. Era sufficiente seguire il forte lezzo di urina o,se non avevi un olfatto sensibile all’ammoniaca, bastava seguire i rigagnoli di piscio che,esondando dagli orinatoi, invadevano i corridoi indicandone con precisione la…fonte.
Fu la volta che suggerii al gruppetto che mi seguiva di turarci il naso ed effettuare la traversata in …”apnea”. Per l’uscita dal “night” adottammo la soluzione “uscita di sicurezza” che ci faceva riemergere direttamente all’aperto. E non crediate che l’hotel fosse molto vecchio.Era stato costruito non più di quindici anni prima ma,affidato alla gestione comunista mostrava tutti i segni inconfondibili della “cosa di nessuno” che i romani codficavono col termine “res nullius”,cioè priva di padrone e,quindi,aggiungiamo noi,priva di valore.
Tito,addirittura,aveva adottato l’autogestione che avrebbe dovuto evitare le inefficienze della gestione statale affidando la regolarità dei servizi non a tutta la collettività,ma ai soli responsabili dell’autobestione quella singola struttura.Il che significava che un eventuale scaricabarile si doveva verificare non più tra molte centinaia di “bellimbusti”,ma tra dozzine di …“bellimbusti”.
Effetto? Sempre scaricabarile era.
E quel piscio? Sempre odor di piscio aveva,mica di acqua di Colonia.
L’indomani,vincendo l’ostilità di Ottorino che paventava la nostra esclusione dal Seminario,mi presentai alla Reception e,con modi fermi e decisi,dichiarai che non intendevamo più alloggiare nel BOZUR che non ritenevamo adeguato alle nostre esigenze. Mi rispose il maître con rassicurante aria di comprensione:
Non è di vostro gradimento la camera?
Non solo la camera,tutto l’hotel.
Capisco.E dove volete andare.
Al Grand Hotel.
Il Grand Hotel,progettato e realizzato da imprenditori tedeschi, a seguito di accordi commerciali che snellendo le pesantezze della burocrazia socialista,avevano realizzato un gioiello di struttura alberghiera degno di un qualsiasi paese …capitalista, era un modernissimo impeccabile Hotel a cinque stelle. E Ottorino non credeva ai suoi occhi.
E gli altri partecipanti al corso si rodevano di bile. E non crediate che nessun altro provasse a fare il nostro tentativo. C’era una simpaticissima signora,dalmata,di Zara,della minoranza “arbanasi” di Borgo Erizzo,quindi jugoslava.Osservò attentamente tutta la mia incredibile vicenda e,confortata dal buon esito della mia riuscita operazione,mentre caricavamo i bagagli in macchina, ci supplicò di aspettarla,che andava su a prendere la sua valigia, cercando,forse,di mimetizzarsi con noi per assicurarsi anche lei i vantaggi di quella fuga.
Aveva fatto i conti senza..l’oste.E quando “l’oste”,la direzione del Grand Hotel,se la trovò di fronte,le negò l’accesso e,poverina, la dovemmo riaccompagnare,pecorella smarrita, alla vecchia … “stalla”.
Però l’episodio costituì un precedente che valse,l’anno successivo, a far insediare tutti al Grand Hotel. Io non c’ero più,ma nessuno mi ringraziò.
Forse nessuno voleva ammettere la propria mancanza di spirito di iniziativa,incompatibile col radicato sentimento di solidarietà a dover condividere tutto ciò che il “regime” metteva a disposizione, come il meglio possibile nell’edificazione del socialismo reale, contestualmente al “progresso ed al bene…di tutti”. E intanto si accontentavano di quel che passava il convento: “piscio e fetore”,in attesa di… “tempi migliori” (campa cavallo).
E sto parlando di italiani che,magari, in Italia facevano la voce grossa se le razioni della mensa aziendale non contenevano la prescritta dose di carboidrati e di proteine,ma lì,cosa volete,lo spirito di fratellanza e di collaborazione imponeva anche qualche…sacrificio. E ad ogni gita nei dintorni di Prishtina non mancavano di intonare, in autobus,”bandiera rossa” e “bella ciao”,facendo calare il latte alle ginocchia,non solo a noi,e passi,ma più che altro ai kossovari,a cominciare dall’autista fino ai docenti che ci accompagnavano.
Ironia della sorte,facevano indispettire proprio i destinatari di quello stupido omaggio canoro,che ne avevano già fin troppo di quel trito e ritrito elogio della rivoluzione dopo trent’anni che ne avevano sopportato i malefici effetti.
Qualche nome?
Francesco Fusca,Carmelo Candreva e Domenico De Giacomo,tutti invocanti rivincite sociali che venivano a declamere periodicamente dal podio,messo a disposizione dal Seminario,ossessivamente intrise del “leit motiv” della nostra“diaspora”racchiuso nella fatidica frase “gjaku jon i shprishur”,“il nostro sangue sparso”,provocando una certa noia persino nei docenti del corso che,esasperati dallo sconsiderato abuso di tanto liquido ematico,coniarono,per quel gruppo di esagitati, il simpaticissimo termine di “i sanguinari” che cominciò a serpeggiare dentro e fuori dagli ambienti universitari.E che benissimo si adattava al più rubicondo di quel gruppo,Carmelo Candreva che,manco a farlo apposta,aveva un viso rosso fiamma che tendeva al paonazzo.
E non vi dico l’insofferenza dei partecipanti tedeschi,francesi,inglesi, australiani e canadesi che non immaginavano ci fossero ancora tanti “beati ingenui” nel mondo libero.
Resta comunque che si stabilirono rapporti di amicizia impensabili in altri contesti.
Igor,che faceva parte del gruppo di Mosca,era un bel ragazzo,alto, biondo,dagli occhi azzurri.Quando,scambiandoci opportunamente una sigaretta,che lui aspirava lentamente fino all’ultimo millimetro, gli confessai che rassomigliava in modo incredibile al poeta russo Evtushenko,mi fissò negli occhi intensamente,alla ricerca di qualche vena di ipocrisia e poi,tenendo la sigaretta stretta tra le labbra,con entrambe le mani afferrò la mia destra (la sinistra,da mancino qual sono,era impegnata a sostenere la sigaretta)e la strinse nella morsa delle sue mani con un vigore impensabile in un intellettuale.
Non pronunciò alcuna parola,ma si capiva che l’accostamento al grande poeta russo,che il regime appena appena sopportava, lo riempiva di gioia,avendo inteso quel che io volevo intendere,una rassomiglianza che andava ben oltre le sembianze fisiche. E finalmente,un pomeriggio,avvenne …l’irreparabile.
Davano al cinema “il dottor Zivago”.Volli rivederlo,anche se nella versione in lingua serba (di facile comprensione a chi conosce il russo). Bisogna sapere che il film era vietato in tutti i paesi comunisti,ma non in Jugoslavia. Che ghiotta occasione.
Quando,nell’intervallo,si accesero le luci,ci fu da parte di noi italiani, lo sconcerto di vedere tutti i partecipanti dell’est europeo,sparsi nella sala,ben lontani uno dall’altro che,scopertisi,vicendevolmente, spettatori di un film rigorosamente proibito che,magari,nei loro paesi avrebbe procurato grane a non finire ed ostacoli alla carriera,lì per lì impallidirono.Ma il loro imbarazzo non durò più di tanto.
Tutti colpevoli?Nessun colpevole.La mutua assoluzione era scontata. Ma del gruppetto di Leningrado,non c’era nessuna. La rigida e severa Irina le teneva sotto controllo con la sferza del solo sguardo.
Al ristorante,poi,si rafforzavano i rapporti di amicizia internazionale. Solo il gruppo di Leningrado faceva vita separata. Pranzavano sempre,sole,allo stesso tavolo e, una volta consumato il pasto,Irina si alzava e “le sette sorelle” timide ed impacciate le andavano dietro per chiudersi nelle loro stanze.
Non era possibile alcun dialogo.Erano state ammaestrate sui gravi “pericoli” del mondo capitalista e sugli agguati della CIA che aveva agenti annidati dappertutto. Ci fu una sera che non seppi resistere.Tra le “sette” ce n’era una,molto carina,dai tratti leggermente orientaleggianti,con un certo garbo nelle movenze che aveva richiamato l’attenzione di tutti i pertecipanti. Tanti ci provarono.Ma si trovarono di fronte ad un muro di gomma. Si chiamava Fatima.Fatima Elloeva.
Appena Irina si alzò e cominciò la marcia di rintanamento,come Mamma papera seguita dalle sue paperelle,urlai ad alta voce: Ehi,voi,dove andate,e facendo segno sull’orologio,feci capire che era ancora troppo presto per andare a dormire. Sette teste si girarono e quando Irina,accertato di cosa si trattava, decise di proseguire,proseguirono verso l’uscita fino all’ascensore. Non ci crederete.
L’ndomani mattina,prima dell’inizio delle lezioni,Fatima si avvicina al mio gruppetto e,con un rituale tutto già preparato,dice:buongiorno, e poi una serie di domande:Come state? avete dormito bene? come vi trovate a Prishtina?
Tutto fu chiaro.Irina aveva capito che si stavano coprendo di ridicolo con il loro isolazionismo,pertanto,dovevano correre ai ripari,cercando di rompere il ghiaccio ed allacciare rapporti col mondo…capitalista. E la scelta,quale catalizzatore,cadde su di me,il più vivace ed il più visibile,per rendere più vivace e più visibile il cambio di rotta.
Fui di una cortesia estrema.E non ci fu volta,negli intervalli di tempo libero,che non mi venisse vicino,con la scusa che non poteva fare a meno di ascoltare il nostro arbëresh,quello di Vaccarizzo,il più dolce di tutti,e del quale,da tempo,stava studiando le cadenze ed i ritmi. Una mattina arrivai all’università con in mano un libro che avevo appena comprato:
“ Lanto por la muerte de Ignacio Sanchez Mejias” di Federico Garcia Lorca,nell’originale spagnolo,con a fronte la traduzione in albanese. Lei non mi dette tempo e preso il libro,che immaginava comprato per farne dono a lei,raggiante, mi ringraziò, pregandomi di scriverle una dedica.Io mi schermii un attimo e poi aggiunsi che non ero molto bravo a scrivere in albanese e,se permetteva,la scrivevo in Italiano. Figuriamoci se lei,che oltre il russo,l’inglese,il francese,il latino,il greco e l’albanese,parlava anche il rumeno e chissà cos’altro ancora,non conoscesse l’italiano.
Ma certo che puoi,disse,in italiano.
Mi accorsi che era felicissima.
E Irina?
Si era completamente defilata,dandole ampia libertà d’azione. E ci fu anche l’occasione in cui salì nella mia macchina con altre partecipanti al corso.
Seduta a fianco al posto di guida,accarezzando il cruscotto della mia alfa romeo “alfetta” Diesel mi chiese:questa macchina è tua? Certo che è mia. Allora sei capitalista?
Per lei bastava possedere un’alfetta per essere capitalista. E se avessi avuto una Mercedes?O un elicottero? O uno Yacht? Alla cerimonia di chiusura del seminario fummo invitati ad una cena alla “Casa della Cultura”.
Molto in tempo mi chiese se potevamo stare vicini quella sera. Cioè avrebbe gradito un cavaliere,nella migliore tradizione di una etichetta ottocentesca tipica dell’aristocrazia zarista che,ancora, permeava la cultura russa,con i romanzi di Tolstoj e Dostoevskij. E fu quasi commovente quando,stando rigida e composta,mi chiese,con dolcezza,di versarle dell’acqua nel bicchiere.
La chiamai al telefono,dall’Italia.Mi rispose la madre che doveva essere stata messa al corrente di tutto,la quale capì al volo di chi si trattava e,tutta emozionata, rispose “just moment”.E lei arrivò trafelata ed incredula.Le chiesi qual era il miglior periodo per visitare Leningrado e mi consigliò l’estate,essendo,per il resto dell’anno,il clima molto rigido.Ma quel viaggio non ci fu mai.
Poi gli avvenimenti presero tutta un’altra piega,e non è da escludere che sulle mie scelte,tra l’altro,pesasse anche la valutazione del danno che avrebbe causato la burocrazia di Breznev,di gran lunga ancor più scoraggiante di quella di Ceausescu,sebbene,entrambe,ugualmente vergognose.
Ernesto SCURA