di Giovanni Scorzafave
Domenico Montillo,1 noto ai più come Ruminichielli ’i trentatreranni, era affetto sin dalla nascita da nanismo primordiale. Per questo suo deficit, nell’accrescimento somatico delle strutture anatomiche del corpo, viveva, quasi sempre, ai margini della società con severe e draconiane restrizioni.
Benvoluto da molti e schernito da pochi, per poter vivere, o meglio sopravvivere, ogni giorno era costretto ad adattarsi ai frenetici ritmi di una società poco solidale e discriminatoria, per cui cercava di cogliere ogni opportunità di “lavoro”. O forse nessuna. Viveva la sua vita con piccoli espedienti, affidandosi spesso all’indulgenza di quelle famiglie dagli animi nobili, che dimostravano nei suoi confronti comprensione e solidarietà. Erano proprio queste che in cambio di qualche commissione, come quella di fargli riempire di acqua piccole vùmmule (recipienti di terracotta) presso le fontanine pubbliche della città, gli offrivano un piatto caldo, un pezzo di pane con companatico (quattro olive e un pezzettino di formaggio fresco o stagionato) e un immancabile e affettuoso… sorriso.
Altre volte, invece, si affidava all’umanità di qualche generoso bottegaio, che gli assegnava dei semplici compiti adeguati al suo stato fisico di eterno bambino, come quello di consegnare a casa di qualche particolare cliente pochi e leggeri prodotti alimentari. Il mondo ’i Ruminichielli era questo, piccolo come lui.
Nella metà degli anni ’40 del secolo scorso, veniva accolto con grande umanità presso l’Ospizio di Mendicità e Vecchiaia, noto col nome “Cor Bonum”, ubicato in alcuni locali del pianoterra del Convento dei Minimi di San Francesco di Paola.
Si trattava di una vera casa famiglia, creata nel 1944, con grande spirito caritatevole, da uno degli uomini più nobili della nostra città, nonché un maestro di scuola e di vita, che stette sempre dalla parte dei più bisognosi: Alessandro de Rosis, noto a tutti come don Lisanni.
Lo ricordo con particolare affetto e grande stima, senza mai dimenticare quel suo modo di salutarmi quando mi incontrava: “guè!”. Quanta tenerezza in quelle tre semplici lettere! Erano tre lettere che annientavano la differenza tra lui, uomo generoso e maestro carismatico, e me, appena un ragazzino.2
Dopo questa mia breve e doverosa riflessione, ritorno al tema.
In questa accogliente casa, “Cor Bonum”, Ruminichielli, all’apparenza timido e tranquillo, diventava a volte inquieto e birbantello, dimostrando sofferenza per il suo stato fisico, ma soprattutto per la mancanza di soddisfazioni di quei bisogni emotivi ed affettivi che gli erano mancati sin da quando aveva aperto i suoi piccoli occhi al mondo.
Forse proprio per questo motivo era in eterno conflitto con i “vecchietti” dell’Ospizio. In particolare, derideva con gesti, che preferisco non riportare (perché da censura), Battista Montalto, uomo bonario e tollerante, noto come Battisa ’u sacristeni oppure come Battist’i ru Primiceriji, perché sagrestano della chiesa di San Giacomo Maggiore, dove celebrava la messa il Primicerio, Monsignor Antonio Colosimo.
Questo atteggiamento ’i Ruminichielli era anche una forma di reazione a tutti gli insulti che, a sua volta, subiva girovagando per le stradine della città, quando sfuggiva alla stretta sorveglianza del padre religioso Michele Serpe.
Infatti, spesso doveva subire le tracotanze di alcuni monelli di strada che, per molestia, gli prendevano, lanciandolo in aria, il suo piccolo e misero copricapo, una specie di baschetto, che gli serviva per proteggersi d’inverno dal freddo e d’estate dal caldo; altre volte, invece, addirittura, gli rubavano quei pochi spiccioli, che teneva avvolti e stretti in un fazzolettino di stoffa, attorcigliato con mille nodi, che teneva nelle minuscole tasche del suo pantalone o all’interno della sua giacchettina.
Erano dei veri mascalzoncelli, che si divertivano a prenderlo in giro per il particolare stato fisico; si trattava di una forma di vero bullismo.
A dire il vero, però, c’erano anche delle persone che gli volevano molto bene; lo accoglievano con autentica simpatia e con affetto incredibile, regalandogli cinque minuti di serenità. A volte anche di più.
A proposito di queste ultime persone devo ricordare che Ruminichielli aveva l’abitudine quando trovava, a pianoterra di un fabbricato, una porta aperta di una casa (e in quei tempi erano numerose) di considerarla sua, cioè quella che gli era sempre mancata sin da quando era un bambino, per cui si intrufolava dentro senza crearsi alcun tipo di problema. Si sedeva, in tutta comodità, su qualche seggiolina, che immancabilmente trovava sempre, e con le braccia conserte restava immobile come una statuina di cera fino all’arrivo di qualcuno.
La presenza dell’inatteso ospite sorprendeva la padrona di casa, che con un finto (e divertito) tono di rimprovero diceva: «… ma tu chi ci fè cchè?» (ma tu cosa fai qui?). Egli, per niente intimorito, non si scomponeva affatto, anzi, al contrario, con un’espressione ironica e un po’ giocosa, sostenuta da un eloquente e tenero sorrisetto, rispondeva con la solita frase imparata a memoria: «ma runa ’na cosicella» (mi dai una piccola cosa).
La “gradita” visita si concludeva, quasi sempre, con un piccolo dono da parte della padrona di casa: un pezzettino di pane, nu stuocchicielli ’i ssazizza (un minuzzolo di salciccia), qualche monetina di poco valore o qualche oggettino religioso, come le figurine o le medagliette dei santi, che Ruminichielli collezionava con amore e devozione.
Felice e contento per l’accoglienza e, soprattutto, per i doni ricevuti, andava via, ringraziando con la frase che soleva ripetere in molte occasioni: «ca vò steri bbona» (spero che tu stia bene), mentre riponeva le monetine nel suo piccolo “salvadanaio”, un fazzolettino stropicciato e macchiato di tutto, che annodava strettamente, e le figurine in una tasca della sua giacchettina di lana.
Poi avvicinava il pane alla bocca e cominciava a mangiarlo, felice come un bambino a cui avevano regalato un gradito e gustoso dolcetto, prima di trovare un altro uscio dove sedersi.
Così, ripeteva in altre case il rito dell’ospite inatteso fino a quando non sentiva i dodici rintocchi delle campane della chiesa di San Francesco, che gli ricordavano che era giunta l’ora di fare rientro.
Qui, all’Ospizio di Mendicità, sistemava con particolare attenzione in un posticino nascosto, ma che conoscevano bene tutti, le monetine, i santini e quelle poche briciole di pane che non era riuscito ancora a mandar giù.
Un altro aspetto singolare, che riguardava quest’uomo per la sua statura fortemente ridotta, era quello di essere considerato di buon augurio da molte persone; un vero folletto venuto chissà da quale bosco fatato.
Le mamme, quando lo vedevano nei pressi delle loro abitazioni, con la scusa di regalargli pochi spiccioli, lo chiamavano per una foto ricordo coi loro bambini. Ruminichielli non si sottraeva a questa richiesta, anzi, ne era particolarmente felice, perché per lui si presentava un’occasione per rendere felici quei bambini alti come lui e, soprattutto, le sue piccole tasche con qualche monetina di alluminio-magnesio con l’immagine del delfino.3
Prima della foto, però, pretendeva, senza se e senza ma, il regalino promesso; non era mica scemo!
A tale proposito si racconta che un giorno una mamma poco sensibile e irriguardosa, dopo una foto ricordo con il nostro ometto e i suoi figli, non abbia mantenuto la promessa del regalo, pensando di farla franca.
La signora aveva sbagliato i conti, perché l’oste, in questo caso l’eterno bambino, le presentava subito e in maniera del tutto singolare il conto: senza scomporsi, entrava in casa, si sedeva con l’intenzione di non andare via se non dopo aver ricevuto il giusto compenso promesso, una semplice monetina con due spighe di grano e (dietro) un aratro,4 ma era il giusto premio per la sua “prestazione professionale”.
Ruminichielli, però, non era solo questo. La sua fantasia, a volte, spaziava in orizzonti più ampi e ambiziosi, dove la sua creatività diventava uno strumento di dialogo, quasi un’opportunità per sconfiggere la solitudine.
Infatti, ricordandosi della professione di banditore del nonno paterno, Francesco (classe 1819),5 qualche volta svolgeva questo particolare compito di proclamatore da fare concorrenza a “Gigi” (Luigi Guarnieri), il banditore per antonomasia di Corigliano, che a suon di squilli di tromba annunciava in quegli anni per le strade principali della città i messaggi del giorno.
Infatti, non di rado, alcuni importanti nostri cantinieri, per pochi spiccioli, gli davano l’incarico di divulgare all’intera cittadinanza la notizia della dell’arrivo del loro buon vino novello.
Ruminichielli, solo dopo aver ricevuto il simbolico compenso in denaro, quasi sempre un paio di monetine da 10 lire, saliva, non senza difficoltà, i quattro gradini che conducevano all’astrachielli ’i ra varbarija ’i mastro Pippini ’i Marinari (pianerottolo antistante il salone di mastro Giuseppe Servidio, soprannominato “Marinari”).
Appoggiandosi al tubo orizzontale in ferro della ringhiera, con la sua caratteristica vocina, così si rivolgeva alla gente che stazionava all’Acquanova: «si vi vulìti cunzeri ’u stòmachi, jeti a ra cantina ’i massa Grigorio ’i Cupielli c’ha ’ntrivillèti ’u vini nuovi, fujiti, genti, … fujiti» (se vi volete aggiustare lo stomaco, andate alla cantina di Gregorio Caldeo perché ha iniziato a spillare il vino novello, accorrete, gente… accorrete).
Dopo una pausa di circa una decina di secondi, probabilmente per riprendere fiato, come se avesse pronunciato chissà quale lungo discorso nella sua lingua madre, ripeteva l’annuncio per altre due volte.
Be’, direte voi, il lavoro era finito. No, signori. Il bando non finiva qui. Tutt’altro. Restava ancora la parte pittoresca, quella particolarmente spettacolare attesa dalle numerose persone presenti all’Acquanova. Ruminichielli, il “banditore in erba”, dotato anche di grande spirito e ironia, concludeva il suo intervento con l’immancabile nasc(i)hièta, cioè una particolare tirata di fiato rumorosa col naso, un caratteristico suono nasale simile ad una spernacchiata o meglio ancora ad un simpatico grugnito.
A questo punto la piazza esplodeva in un coro di giubilo, di ammirazione e di risate. L’applauso fragoroso di tutti i presenti era talmente forte da richiamare, per la grande curiosità, altre persone all’Acquanova.
Sembrava che si stesse svolgendo un comizio di qualche illustre politico di allora. Quella “simpatica” pernacchia era, però, solo la voce della sua “trombetta naturale” che voleva dire che il bando era terminato.
Unanime era il tributo di affetto ad un uomo, il cui unico “torto” era quello di essere nato con un fisico particolare, costretto a guardare uomini e donne sempre dal basso.
Così, Ruminichielli, uomo emarginato e dileggiato da alcune persone senza scrupoli, viveva finalmente i suoi minuti di gloria nella piazza più importante della città, all’Acquanova.
Anche se in una veste goliardica e satirica, era il giusto riscatto di una vita vissuta, in piena solitudine, sulla riva del mare dei pregiudizi e dell’ignoranza, un’immensa distesa di sabbia dal colore nero, molto intenso, quello che caratterizza l’odio per la diversità.
Finalmente quel piccolo pianerottolo, dove eminenti personaggi pronunciavano le famose orazioni funebri in memoria di defunti illustri, aveva dato l’opportunità a Domenico Montillo – così adesso mi piace chiamarlo – di vedere uomini e donne da una nuova prospettiva, quella di guardarli finalmente dall’alto, e non più dal basso.
Negli anni ’60, per vari motivi, l’Ospizio fu costretto a limitare la propria attività. Rimasero solo in pochi, quelli più anziani. Tra questi ultimi non poteva mancare l’irriducibile Ruminichielli ’i trentatreranni.
Poi, come tanti altri personaggi di allora a me particolarmente cari, anche il Montillo scomparve dalla mia vista, ma non dalla mia memoria, che, sebbene dalle capacità limitate e leggermente smagnetizzata dal tempo, conserva ancora un affettuoso ricordo, che continuo a tenere dentro di me e a raccontare con umiltà e semplicità, affinché le nuove generazioni sappiano che gli uomini sono tutti uguali e non si misurano in centimetri, ma solo in base alla loro dignità, onestà e rispetto verso il Prossimo.
Solo così possiamo sperare in un mondo migliore, dove il bene finalmente possa prevalere sul male.
Oggi, sono certo che il nostro personaggio dove attualmente vive, nella città dei Giusti, sotto la stretta sorveglianza non più di padre Michele Serpe, ma del Signore, non continuerà più a prendere simpaticamente in giro Battisti ’u sacristeni.
Gli starà accanto con affetto e tenerezza, come starà accanto con altrettanta amorevolezza a tutti i suoi compagni dell’Ospizio: Carolina B.; Angelo S. ; Tommaso P. ; Isola D. ; Antonio P. ; Vincenzo G. ; Carmela T. ; Agata M. ; Antonio D.C. ; Angelo M. ; Francesco S. ; Marianna B. ; Cristina T. ; Maria Rosa S. ; Giorgio S. ; Filomena G. ; Domenico P. ; Vincenzo G. ; Lucia Z. ; Antonio T. ; Salvatore L. ; Rosa S. ; Leonardo S. ; Maria A. ; Maria Carmela Z. ; Giovanni O.
A Ruminichielli e ai suoi cari compagni di merenda, orgoglioso di essere stato un loro concittadino, rivolgo, tramite queste poche righe, un sincero e rispettoso ringraziamento per avermi insegnato con la loro presenza quei principi di rispetto verso le persone più fragili, ma nel contempo forti della dignità e dell’onestà che li hanno sempre contraddistinti durante la loro permanenza in questo misero mondo.
Come, pure, ringrazio, ancora una volta, uno dei membri della famiglia dei baroni de Rosis, don Lisanni, per aver scritto, nella metà del Novecento, una delle più belle pagine per la nostra città. Non solo, ma anche per avermi insegnato a stare sempre, e comunque, dalla parte di quelli che, purtroppo, ancora in questo terzo millennio vengono definiti “ultimi”, ma “ultimi” non sono, perché non sono secondi a nessuno.
1 Domenico Montillo, all’anagrafe anche Vincenzo, figlio di Antonio (classe 1848) e di Marianna Casciaro, era nato a Corigliano, in via Capalbo, il 14 ottobre del 1896. Cessava di vivere il 9 aprile del 1974 a Cassano All’Ionio. Probabilmente il soprannome gli era stato dato da qualcuno alla fine degli anni ‘30, quando effettivamente aveva 33 anni. Ecco cosa, invece, mi scriveva tempo fa il caro amico Gerardo Bonifiglio sulla questione del soprannome del Montillo: Resta un mistero quell’appellativo che se giustificava il diminutivo del nome, che come abbiamo visto si confaceva alle caratteristiche fisiche del personaggio, non spiegava il perché di quei “trentatré anni” che tali restarono per tutto il corso della sua vita. Né siamo in grado di svelare quando e chi glielo assegnò. Se vogliamo dare retta all’importanza dei numeri in molti contesti, non solo esoterici, il numero 33 è un numero definito “maestro” e “fortunato” già dai tempi dello storico Flavio Giuseppe, possiamo quindi dire che probabilmente l’appellativo di “33 anni” fu dato al nostro da qualche “intellettuale”. O se vogliamo, non è da escludere che il numero faccia riferimento all’età di Gesù che come sappiamo anche lui, per altri versi, fu fatto oggetto di vessazioni, insultato e schernito
2 Alessandro de Rosis (18-3-1919 / 4-10-1970) svolse una funzione importante nella vita culturale e sociale della nostra città negli anni che seguirono la fine della Seconda Guerra Mondiale. Diplomatosi come insegnante nel 1939, sposò il 28 febbraio del 1942 la maestra Grazia Aceto, una donna dalle straordinarie virtù, che gli diede otto splendidi figli (Fonte: Il Serratore n.2)
3 Erano le 5 lire emesse nei primissimi anni ’50 del secolo scorso
4 Le monetine con le due spighe di grano e l’aratro furono coniate per la prima volta nel 1951
5 Anche uno dei fratelli del padre, Giovanni (1851 – 1908), eserciterà a Corigliano la professione di banditore fino ai suoi ultimi giorni di vita