(ricordi di tanti anni fa) di Rosella Librandi Tavernise
Accompagnato dal sole dell’estate, arrivava l’autunno, con altri colori e altri odori. Questo era il tempo della vendemmia, delle provviste alimentari e di grandi festività religiose.
La prima di queste era la festa dedicata ai Santi medici Cosma e Damiano, venerati a
San Cosmo Albanese.
A San Cosmo, che dista circa 2 Km da Vaccarizzo, si andava a piedi, a frotte, per tutta
la durata della novena: alcuni, per voto, vi andavano scalzi.
La prima e la seconda domenica di Ottobre si festeggiava la Madonna del Rosario. In
quei giorni si mantiene ancora l’uso di mangiare una saporita minestra di cavolo nero
misto a carne di capra (lakra me mish dhiji) e si facevano i dolci delle grandi feste: i
taralli, profumati con i semi di anice. La devozione per la Madonna del Rosario era
molto sentita e molte donne e qualche uomo ne portavano il nome: Maria Rosaria o
solo Rosaria e Rosario.
Alla Madonna del Rosario era dedicata la Chiesa di rito latino (ora sconsacrata). Di
questa bella Chiesa del 1600 resta integra solo la facciata: svuotata di tutti gli arredi,
fu ristrutturata e adibita a sala parrocchiale; ora vi si conservano le pregevoli statue
dei Santi venerati a Vaccarizzo e un bellissimo dipinto del pittore Eugenio Raffaele
Barone raffigurante la Madonna del Rosario con ai lati San Domenico e Santa Rosa
da Lima.
A Novembre ricorre la festa della Madonna di Costantinopoli, patrona di Vaccarizzo,
detta “Shin Mëria menca sporis”, protettrice della seminagione e dei massari. Il 6
Dicembre si ricordava San Nicola e quel giorno si mangiava la minestra di fave
secche decorticate dette bath-fav (curiosa denominazione formata da due parole di
uguale significato: bath, albanese e fav, italiano); l’8 Dicembre, la ricorrenza della
Madonna Immacolata, essendo di precetto, ci regalava quasi sempre un giorno di
festa infrasettimanale; il 13 Dicembre la festa di Santa Lucia, protettrice della vista,
era molto sentita, come lo sono tutte le feste dedicate ai Santi che proteggono la
salute.
Quindi, si avvicinava l’inverno caratterizzato da altri riti e altri modi di vivere.
L’autunno era anche il tempo delle provviste: le necessità della famiglia, dall’antichità
più remota, indussero gli uomini a conservare i generi alimentari. Questa non è più
un’esigenza, poiché nei negozi si trova di tutto in ogni periodo dell’anno, inoltre, è
cambiato il modo di vivere e non si ha più il tempo per dedicarsi a lavori che
richiedono molto impegno e pazienza; quindi, fare le conserve, oggi, è un hobby ma
nel dopoguerra essa era ancora una necessità. Fare le conserve in casa è voler
ricordare i sapori delle buone cose dei tempi passati, pertanto, molte industrie
artigianali propongono prodotti alimentari preparati secondo le ricette tradizionali.
A Vaccarizzo si conservavano con vari metodi, frutti, verdure, olive, pesci.
Le nostre belle colline soleggiate e arieggiate sono coltivate a ulivi, fichi, alberi da
frutta e viti, perciò i frutti di questi alberi sono molto utilizzati: sia mangiati freschi
che conservati. Mele, pere, cocomeri, si mettevano a maturare nella paglia in soffitta;
i grappoli di uva e i pomodorini si appendevano alle pertiche in cantina.
Dalla Serra Crista scendevano i montanari (lëtiret) con gli asini carichi di sacchi di
patate, di mele, di castagne, di farina di castagne e di carbone per barattarli con olio,
soprattutto, ma anche con olive, fichi e pepe macinato (paprika). Portavano anche i
semi dell’anice che vendevano misurandolo con un ditale da donna.
Oltre che bollite, le castagne, dopo averle incise perché non scoppiassero, si
arrostivano nella pastillera (padella col fondo bucherellato) che si poggiava sul
treppiede di ferro sopra la fiamma vivace del fuoco. Ottime erano quelle infornate e
quelle morbide affumicate infilate in lunghi filari dette trungigliuni e le pastille
castagne secche sbucciate e mondate che, bollite, diventavano rossastre e dolci. Le
castagne crude si mantenevano fresche immergendole in uno strato di sabbia.
I fichi si raccoglievano quando diventavano mosci e si mettevano a passulare
(disidratare) al sole, sui graticci di canne. Seccati al punto giusto, si scartavano i
meno buoni che si davano ai maiali, mentre quelli buoni si confezionavano nelle
forme tipiche: a crocette, farciti di noci e mandorle; infilati a uno a uno nei lunghi e
flessibili vincastri (vrielli), che si arrotolavano a spirale; in trecce (hjettet), infilati
nelle asticelle di canna, sovrapposti a due a due oppure a tre a tre; a pallotte, chiusi
da foglie di fico e profumati con foglie di agrumi. Tutte queste forme si disponevano,
poi, nelle teglie di latta e si infornavano; altri fichi erano lasciati crudi: col passar del
tempo, dopo l’essiccazione, questi rilasciavano all’esterno un sottile, bianco e
dolcissimo velo di zucchero. I fichi si conservavano in grandi panche di legno
(kashuni).
A Ottobre tornavano dalle vigne gli asini carichi di sporte piene di uva, assalite da
nugoli di vespe attirate dal dolce profumo che da esse emanava. Nelle cantine
attrezzate all’uopo, le sporte venivano svuotate nei tini e l’uva veniva pigiata prima
coi piedi nudi, poi, spremuta meglio nel torchio. Col mosto si usava fare anche il
mostocotto.
I pesci li portava “Sarbaturi” dalla Marina di Schiavonea; il mercatino del pesce era
localizzato nel piccolo portico sotto palazzo Dramis in Piazza Garibaldi, te qjaca (ora
chiuso e adibito a ufficio comunale). Quando arrivava il pesce, per le vie del paese
(allora meno esteso), passava il banditore, “ ‘Ndoni Shagomit”, il quale svolgeva
anche la mansione di bidello municipale; fermandosi ad ogni vicinato (gjtoni),
suonava la trombetta per attirare l’attenzione ed esordiva dicendo a gran voce: – Jan
pischq te qjaca! -, quindi elencava i vari tipi di pesce in vendita (tutto pesce azzurro),
pescato te deiti jon (nel mare nostro): sarde, guglie, alici, bobbe, naccarìelli, sauri,
zirri, con il prezzo corrispondente e la brava massaia si affrettava ad andarli a
comprare. Mia madre, del 1913, ricordava un originale banditore, Gesualdo, pure lui
messo comunale, il quale, dopo aver attirato l’attenzione con il suono della trombetta,
esordiva dicendo con enfasi: – Gjth njerit te gjegjgnin! – cioè “Ascoltino tutti!”,
eccetera. Il banditore annunciava anche altri avvenimenti.
Anche i pesci si conservavano sott’olio o sotto sale misto a peperoncino ridotto in
polvere e, naturalmente, una parte si cucinava e mangiava in giornata. Si
conservavano pure sotto sale, sott’olio o sott’aceto, nei tarzaruli (recipienti cilindrici
di terracotta), melanzane, peperoni dolci e piccanti, capperi, funghi e pomodori verdi.
Con i pomodori verdi misti a patate e peperoni si facevano delle gustosissime
diganate (padellate); coi peperoni sott’aceto si accompagnavano le minestre di
legumi; con i capperi e le melanzane, il salame; con i pomodori rossi e maturi si
faceva la salsa, in grande quantità (doveva bastare per l’intero anno fino alla
successiva raccolta).
I rossi filari di peperoni e peperoncini appesi a seccare sui balconi e sulle loggette,
che abbellivano e rallegravano le facciate delle case, dopo la perfetta essiccazione,
venivano pestati e ridotti in polvere più o meno fine che, mista al sale, doveva servire
per impastare la carne di maiale per farne salsicce e, anche, per condire alcune
pietanze come la pasta e fagioli all’aglio olio e peperoncino, o la fresa kunzata cioè
conciata alla maniera calabrese, cioè condita anche con olio, aceto e origano.
Le olive si mangiavano come companatico e si conservavano nelle giare con vari
metodi, sia quando erano ancora verdi che quando diventavano nere e mature. Quelle
verdi, schiacciate, si aromatizzavano con il finocchietto selvatico, quelle verdi intere
con le foglie di alloro; le olive nere crude si conciavano con peperoncino e origano o
si friggevano insaporendole con l’aceto: le erbe conferivano ai vari prodotti un
invitante profumo.
Pertanto, per quasi tutta la durata dell’autunno, il profumo dei fichi infornati, quello
dolciastro del mosto e della frutta che cuoceva nei calderoni (kusìt) per farne
marmellate, quello acidulo dei pomodori messi a seccare, si fondevano e per le vie
del paese si diffondeva un buon profumo che sapeva di case dove ferveva il lavoro
operoso, silenzioso e utile delle donne.
Corigliano Calabro,