Negli anni ’70,avvantaggiato dall’essere arbëresh, colsi la fortunata occasione di essere inserito in un gruppo privilegiato di visitatori dell’Albania di Enver Hoxha che,rotti i rapporti con la potente Unione Sovietica e con tutti i suoi satelliti,aveva scelto amici comunisti forti e lontani,come la Cina di Mao. L’Associazione Italia Albania provvide a tutto,visti e altre formalità,e tutto gratis.
Ma l’Albania non si poteva raggiungere nè con l’aereo (l’aeroporto era chiuso per motivi “strategici”) nè via mare (il porto di Durazzo non era chiuso ma il pericolo di “invasioni” era aumentato da quando al potenziale “invasore americano” si era aggiunto quello sovietico).
Lasciata la macchina a Bar,in Montenegro,in taxi ci recammo al confine albanese di Ani Hotit,non molto lontano da TITOGRAD (così si chiamava,la capitale del Montenegro,in omaggio a Tito.Ma è altra salsa. Eravamo un gruppo di sette arbëresh,e gli altri cinque, oltre a me e mio cugino Ottorino,erano “addomesticati” a dover riconoscere i “successi” e le “realizzazioni” del regime,ancor prima di averli constatati.
Erano,politicamente,degli “arrabbiati ultracomunisti”, appartenenti a quella specie di gruppuscoli tenuta in molta considerazione negli ambienti universitari,che avevo avuto modo di ascoltare in occasione di una confernza all’Unical di Rende,con proiezione di filmati, intesi a glorificare le comquiste dell’Albania comunista. In chiusura,uno di questi “arrabbiati” concluse quella conferenza con la frase:
“MI VERGOGNO DI ESSERE ITALIANO”,volendo far rilevare le negligenze del capitalismo occidentale raffrontate al benessere raggiunto in quel paese.
Non che mi avesse convinto ma,non lo nego,mi aveva incuriosito questa “certezza inoppugnabile”. Raggiunsi un compromesso con me stesso:
“Se un giorno visiterò l’Albania,lo farò prevenuto contro le mie stesse prevenzioni,mettendo da parte le mie già consolidate convinzioni politiche e,se necessario,ammettere,almeno con me stesso,la verità,anche se non gradita,qualora fosse entrata in conflitto con tutto ciò di cui,ero,prima,convinto”.
Vi anticipo il risultato: Non ho mai dovuto recedere dalle mie convinzioni sul dualismo Capitalismo – Comunismo,specie in seguito alla mia visita nell’Albania di Enver Hoxha. E la Storia,quella con la S maiuscola,mi dà piena ragione,oggi,come allora,dopo il fallimento totale di quell’utopia costellata di morti e di privazioni e di stenti,e di soprusi,e di internamenti nei lager. Ma torniamo a quel viaggio in Albania.
Appena varcata la frontiera avemmo modo di poter verificare la consistenza dell’export albanese,dal considerevole numero di TIR-frigorifero,carchi di lumache e di rane,destinate al mercato francese, e di cui i francesi benestanti sono molto ghiotti. E queste specialità vengono servite nei ristoranti di lusso dove,non dico i clienti,ma nemmeno i camerieri,ma nemmeno gli inservienti,ma che dico, nemmeno gli sguatteri di cucina immaginavano da quali mani scarne e miserabili erano state raccolte quelle pregiate leccornie.
In quel momento l’Albania ospitava migliaia di maoisti di tutto il mondo che,al mare di Durazzo,avevano riempito tutti gli alberghi e,al mattino,dopo un breve allenamento ginnico sulla spiaggia (sai com’è,la lotta di classe esige anche la forza fisica e l’efficienza dei muscoli,se no che “rivoluzione” sarà?) si riunivano a gruppetti per dibattere i problemi del marxismo e del leninismo e,(e poteva mancare?),del maoismo.
La nostra guida,il professor Muzafer Xhaxhiu,docente di filologia all’iniversità di Tirana,ci risparmiò,con molta intelligenza,gli esercizi fisici e l”indottrinamento,e si limitò ad appagare le nostre curiosità linguistiche. Ma a Durazzo avvenne l’irreparabile. A causa della scarsa igiene e della pessima qualità del cibo,scoppiò un’epidemia di diarrea che,per diversi giorni,sconvolse i programmi degli adepti che furono costretti ad astenersi dall’esercizio fisico e dai dibattiti politici,limitandosi a far la fila davanti alle latrine,pallidi e disfatti spettri di un incubo viscerale.
Vagavano senza la consueta carica aggressiva. Solo io ed Ottorino restammo immuni,dato che Ottorino, previggente,aveva portato le medicine giuste. Al povero Xhaxhiu,dopo le prime avvisaglie,provvide Ottorino a fornire le pillole. A Tirana alloggiavamo al Dajti,unico Hotel,costruito dagli italiani durante l’annessione.
Alle spalle dell’hotel era in costruzione una palazzina. Osservammo attentamente le tecniche di costruzione. Nessun montacarichi.I materiali,mattoni e malta,venivano portati a spalla su pericolosi scivoli,o sulla testa,dalle donne-operaio,arrancando sulle precarie scale a pioli. Di norme di sicurezza,quelle con cui i sindacati,in Italia, vessavano le imprese,qualora non applicate,nemmeno l’ombra.
E non vi dico i rattoppi di conglomerato bituminoso sulle strade.Erano sempre le donne che,sacrificando la loro femminilità,si imbrattavano,sui vestiti e sul viso,di bitume, che conferiva alla loro femminilità un beffardo simulacro di…cosmetica.
E quando,visitammo un’azienda agricola di Stato,che voleva essere un modello d’insediamento,sul fronte della prima minuscola casetta,c’era un rubinetto d’acqua aperto,che scorreva violentemente,e nessuno provvedeva a chiudere,a dimostrare che in quel Kolkhoz vi era acqua in abbondanza.Però fuori casa.Chissà se dentro…c’era il bagno?(allora non si capisce il perchè del rubinetto fuori).
E dopo la consegna,al nostro gruppo,del mazzo di fiori offerto da un bambino,nel rispetto dell’oleografia sovietica cara a Stalin,ci fu il discorso infuocato di un esaltato dirigente che la buttò sulla guerra contro gli invasori tedeschi.”Li cacciammo dall’Albania e li,inseguimmo fino ai confini.E li avremmo inseguiti fino a Berlino.Ma slavi ed alleati ce lo impedirono.Pazienza,sarà per la prossima volta.” A sentirlo,la guerra l’avevano vinta loro,da soli.
Ma Xhaxhiu,in disparte,sottovoce,mi chiedeva se in Italia c’erano ancora quelle belle stoffe “principe di Galles” e se in Italia si cantava ancora “Giovinezza”. Lo rassicurai che il tessuto “principe di Galles” era in continua produzione.”Giovinezza”,invece,era da un pezzo che non si cantava più.
E ci fecero visitare anche una fabbrica di tessuti. Producevano,tra l’altro,una stoffa “jeans” per gli odiati pantaloni simbolo del decadente mondo occidentale. Ci avvertirono che era stoffa destinata ai paesi capitalisti. In Albania i jeans erano vietati.
Poi,finalmente,fummo ricevuti dal presidente del Comitato Centrale del Partito Comunista (Partito del Lavoro). Ed io,eterno dissacratore,rompendo l’idilliaca atmosfera che si stava creando tra il presidente ed i miei compagni di viaggio,posi la domanda se era vero che Stalin,il loro idolo,Stalin,in un incontro decisivo,disse a Tito che stava per uscire dal COMINFORM :
“Cosa vuoi,l’Albania? Prendila pure!” Ed accompagnò le parole,con le punte delle dita unite,avvicinando la mano alla bocca,nel gesto tipico di chi vuol imitare un boccone. Diventò furioso e ribadì che era falso e che non l’aveva scritto,come asserivo io,Tito,nelle sue memorie. Io abbozzai e lui rifece il giro riempiendo i bicchieri di rakì, la loro grappa.
E sulla parete di fondo campeggiava l’austera foto del compagno Enver che tutto teneva…. sottocontrollo.
Ernesto Scura
P.S. Nella città di Elbasani,percorrendo il marciapiedi,fummo sorpassati,io ed Ottorino,da una bambina che,velocemente, s’infilò in un portone,ostentando una insolita indifferenza nei nostri confronti,senza nemmeno osservarci,almeno con la solita curiosità,tipica dei bambini in presenza di stranieri. Ma appena arrivati in corrispondenza del portone,vedemmo la bambina che,furba,aveva scelto il posto migliore per non essere vista da occhi indiscreti e,con le mani mimava lo stiramento della gomma da masticare,allontanandole e avvicinandole alla bocca,rendendo perfettamente l’idea che voleva esprimere:avete qualche chewingum?
Ed io ed Ottorino restammo mortificati,non potendola,in alcun modo,accontentare.Non eravamo i “capitalisti” della stucchevole propaganda comunista.Noi,almeno noi,non masticavamo quella roba lì.
Ernesto Scura