Arrivava l’inverno e a Vaccarizzo Albanese portava il freddo, la neve, il vento forte di ponente che scoperchiava i tetti e faceva cadere le tegole e le graste dai davanzali delle finestre, la pungente tramontana (vorea) e lunghe serate raccolti attorno al focolare (te vatra).
Nevicava spesso abbondantemente e la neve, col suo peso, rompeva i rami degli alberi; per andare da una casa all’altra bisognava fare le stradine spalando la neve; gli uomini, per ripararsi dal freddo, giravano intabarrati nei pesanti mantelli neri e le donne si avvolgevano negli ampi scialli di lana, detti fazzulettuni e sciarponi.
Dai tetti delle case basse (terranet) la neve sciogliendosi e colando, durante la notte, a causa del freddo rigido, si ghiacciava formando le stalattiti: irresistibili tentazioni per noi bambini che ne facevamo ghiaccioli senza colore, spezzandoli con i bastoni.
Sulle montagne i montanari sapevano conservare la neve pressandola in ampie buche foderate di paglia, alternando strati di neve a strati di paglia (le neviere) e in estate scendevano in paese per venderla. La neve granulosa e croccante si comprava per farne la granita con il mosto cotto (shurbeta).
Per tutto l’inverno, all’imbrunire, quando l’aria diventava umida e il cielo grigio, rientravano gli asini carichi di sacchi di olive che portavano nei frantoi per la frangitura (allora in paese ce n’erano una decina). Per le strade si spandeva un buon profumo di olio fresco e di legna che ardeva nei camini. Sulla brace si arrostivano grosse fette di pane casereccio che venivano gustosamente condite con l’olio nuovo.
La mattina, all’alba, le donne a gruppi, col paniere infilato al braccio, uscivano da casa per andare a raccogliere le olive nelle campagne che circondano il paese, te kopshtet e difizet. Altri gruppi si trasferivano, per tutta la lunga durata della raccolta, nella pianura e dormivano negli stanzoni a pianterreno delle masserie: portavano dal paese il pane, i legumi, fichi secchi e pesci salati come companatico; sul posto trovavano le verdure selvatiche e le olive che mangiavano crude ben condite con origano e paprika o fritte, insaporite con peperoncini e aceto. Dopo Natale, quando il freddo diventava pungente, si ammazzavano i maiali; le povere bestie, tolte dai porcili (cimbunet), venivano condotte agli oleifici dove si procedeva al crudele rito dell’uccisione perché lì c’erano gli operai che avevano la forza per immobilizzarli e c’era sempre l’acqua bollente necessaria per spellarli. Dopo la squartatura ai bambini si regalava l’ “osso cannarutu”, pezzo di osso avvolto da carne, il coccige che, arrostito sulla brace, risultava molto saporito. (I Kirghisi, nomadi dell’Asia centrale, quest’osso lo offrono all’ospite di riguardo e pure loro lo chiamano “osso prelibato”)
Quando pioveva, non potendo giocare fuori, i bambini giocavano dentro casa: con i bottoni, con le figurine dei calciatori e a nascondino (musheta), nascondendosi dietro i mobili e dietro le gonne lunghe della nonna. Nelle case non c’era il riscaldamento e la vita quotidiana si svolgeva in cucina davanti al grande focolare. Accanto al fuoco stava sempre una pignatta (poçia) piena di legumi, patate, castagne o fave. Queste, essiccate con tutta la buccia, dopo la cottura si spruzzavano di origano. La cucina era sempre impregnata di un buon profumo di cibo e di chiacchiere. Sulla mattonata incandescente del focolare noi bambini facevamo i popcorn (che allora non si conoscevano): ci buttavamo una manciata di granoturco e aspettavamo che i chicchi si gonfiassero e scoppiassero; si arrostivano le castagne nella padella bucherellata (pastilera) e la salsiccia, infilata nello spiedo (te helli): quando il grasso, tinto dal pepe rosso, cominciava a colare, la salsiccia si asciugava su grosse fette di pane che si impregnavano e si ottenevano gustosissime panzanelle (çaudelie). Dalla robusta catena di ferro sospesa sul focolare (Kamastra) pendeva il paiolo di rame pieno d’acqua, sempre calda, per ogni esigenza. In cucina, dalle pertiche appese al soffitto pendevano lunghi filari di salsicce e soppressate che si dovevano “curare” prima di conservarle nell’olio o nel grasso dentro le giare e nei tarzaruli (recipienti cilindrici di terracotta).
I vecchi ricordavano storie e personaggi del passato. I bambini venivano tenuti a bada spaventandoli dicendo loro che, se facevano i cattivi, arrivvava Boborroku, Tat Loshi (il tuono), Lal Orku (zio Orco) o Gjankalliu (il gufo) che di notte faceva un lugubre verso.
Nonna Marietta mi leggeva le fiabe di Luigi Capuana; nonno Peppino raccontava fiabe che non riuscivo a seguire fino alla fine perché mi addormentavo. In Dicembre arrivava il Natale e le feste natalizie con tutta la loro suggestione; a Febbraio, la triste commemorazione dei defunti e il Carnevale. Non esistevano, per il travestimento, i costosi vestiti già confezionati da astronauta, vampiro, Zorro, Biancaneve e principessa per cui si inventavano costumi da zingara, da straccione, da bandito e da signora, utilizzando i vestiti della mamma e quelli vecchi.
I ragazzini giravano per il paese con in mano uno spiedo di legno per infilzarci i pezzi di salsiccia che venivano loro regalati quando bussavano alle porte delle case. Oggi, in paese, di tutto questo è rimasto poco o niente; il passato non interessa, si vive nel presente: il fumo del focolare impuzzolentisce gli abiti, il grasso fa male alla salute, i giochi si fanno al computer, i popcorn si comprano a pacchi, le botteghe artigiane sono chiuse, i ghiaccioli colorati e profumati di chimici aromi si comprano nei negozi e si succhiano tutto l’anno, le case nuove si puliscono con le scope elettriche, le olive si abbacchiano e vengono raccolte nelle reti in breve tempo, i salumi e il pane si comprano nelle fabbrichette o nei negozi, eccetera eccetera…
Corigliano Calabro, 21/01/2021