Che la Calabria sia una regione con una consistente comunità all’estero, che deriva in parte dalla sua storia emigratoria ma soprattutto da una nuova mobilità, lo dimostrano i dati dei suoi residenti iscritti all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero). E nella graduatoria dei primi 25 comuni italiani ai primi posti troviamo Roma, Milano, Torino e Napoli e al 23mo posto, primo nella regione, l’ormai ex comune di Corigliano Calabro con ben 9.883 persone iscritte su una popolazione di 40.450 abitanti (incidenza del 24,4%).
Il significativo quanto clamoroso e preoccupante dato dell’avvenuta emigrazione, soprattutto giovanile, che si è finora registrata nell’area urbana coriglianese del nuovo e unico comune di Corigliano Rossano, è oggi all’attenzione anche dell’Università della Calabria. È infatti il professore Giuseppe De Bartolo, autorevole docente di Demografia presso il Dipartimento di Economia, Statistica e Finanza dell’Ateneo di Arcavacata, in un suo saggio pubblicato su “OpenCalabria”, a riportare l’elevato numero, circa 10mila coriglianesi, personalmente interessati dal fenomeno migratorio. Una percentuale sulla quale occorre riflettere, tanto da divenire oggetto di studio e ricerca in tale contesto.
“Fra le dieci comunità più numerose di calabresi residenti all’estero, che rappresentano nell’anno 2018 il 92% dei residenti calabresi all’estero, quella più numerosa – scrive De Bartolo – vive in Argentina, con quasi centomila residenti. Consistenti sono anche le comunità che vivono in Germania, Svizzera e Francia, Australia e Canada. Dunque, un patrimonio di persone, numericamente importante (un quinto del totale della popolazione regionale), spesso con un livello di istruzione elevato, rilevante sia dal punto di vista numerico sia sociale che economico, fortemente legato alla terra di origine dalla quale si aspetta attenzione e considerazione”.
“Dall’Unità, e fino ai primi anni ’70 del secolo scorso, l’Italia è stato un Paese profondamente segnato dall’emigrazione. In questo lungo periodo di tempo – spiega ancora il docente dell’Unical – il fenomeno si è caratterizzato per due ondate migratorie: la prima, composta prevalentemente da spostamenti oltreoceano, si distinse per l’alta intensità (ricordiamo che gli espatri dal 1876 al 1915 furono 14 milioni). La seconda, che si realizza a partire dalla metà degli anni ’50, si è distinta per una intensità più contenuta, con prevalenza dei flussi in direzione dell’Europa. Agli inizi degli anni Settanta, l’Italia, per la prima volta nella sua storia, registra un saldo migratorio positivo, che aumenta sempre di più negli anni successivi, trasformandosi via via in un Paese d’immigrazione. Successivamente, i trasferimenti di residenza degli italiani nei Paesi esteri rimangono modesti e superano le 100mila unità annue solo di recente. Nel contempo, però, si osservano importanti cambiamenti nel profilo di coloro che trasferiscono la loro residenza all’estero. Infatti, i nuovi emigranti hanno un livello di istruzione sempre più elevato. Compaiono nuove figure come quella dei nonni – genitori, che trascorrono periodi sempre più lunghi all’estero con i figli e nipoti; quella del migrante maturo rimasto disoccupato e lontano dalla pensione che si trasferisce all’estero per lavoro; del migrante detto di rimbalzo, cioè colui che dopo tanti anni vissuti all’estero ripercorre per vari motivi la via inversa. Più di recente sta emergendo anche il migrante previdenziale che risiede per lunghi periodi in Paesi dove è in corso una politica di defiscalizzazione e dove trova condizioni sociali ma anche climatiche più favorevoli. Questo lungo processo di mobilità ci ha consegnato uno stock di italiani residenti all’estero rilevante sia dal punto di vista numerico che sociale ed economico, la cui conoscenza qualitativa e quantitativa resta ancora parziale, perché le fonti statistiche di riferimento sono lacunose e molto disomogenee fra di loro”.
Fabio Pistoia