Dalla casa circondariale di Rebibbia, dove si trova detenuto, mi scrive il coriglianese Fabio Falbo, neo-dottore in Giurisprudenza. L’occasione è dettata per l’appunto da un recente articolo, afferente il suddetto traguardo conseguito nell’ambito di un’iniziativa di carattere nazionale, e prende spunto dalla seguente premessa allo stesso: “C’è un tempo per ogni cosa. Per l’azione e per la riflessione, per gli errori e per il ritorno sulla retta via.
Un tempo nel quale la giusta espiazione della pena inflitta per i reati commessi nei precedenti anni, quasi in un’altra vita, venga interpretato come l’ordinamento giudiziario prescrive: strumento rieducativo e utile, quando sarà, ai fini del reinserimento nella società. Accade allora che si registri un avvenimento che, lontano da stucchevoli beatificazioni come da falsi moralismi, si ritiene opportuno rendere pubblico, per le finalità formative che ne stanno alla base…”.
Volentieri, e com’è giusto che sia, si riportano ampi stralci di questa lunga e dettagliata lettera di Falbo, anche se, è opportuno precisarlo, tale premessa non era affatto riferita alla sua specifica vicenda processuale ma, più in generale, alla funzione del carcere e alla funzione rieducativa del medesimo.
“È vero che c’è un tempo per ogni cosa, ma nel mio caso – scrive Falbo – c’è stato il tempo che mi hanno sottratto in modo infamante facendo credere che io sia stato colpevole dei reati ascrittimi… La mia azione l’ho usata nello studio per capire questo modo contorto di applicare un diritto travisando i fatti e le prove, facendo risultare l’attività processuale condotta nel rispetto delle regole; la riflessione che mi sono fatto in tutti questi anni di carcere è tale da considerarmi una vittima del processo. È vero, se puntualizzi “errori”, gli stessi commessi da…!!! che hanno portato una infamante condanna. Si fa riferimento al tempo e alla giusta espiazione della pena ed io aggiungo per reati mai commessi o finanche immaginati. Non posso definire giusta un’espiazione per una persona che non è innocente. Io non sono innocente, sono totalmente estraneo ai fatti ascrittimi: il dato è cosa ben diversa dall’innocenza. In merito a cosa prescrive l’ordinamento penitenziario riferito alla rieducazione e al reinserimento, io non ho niente di che rieducarmi o reinserirmi, ero ben inserito nel tessuto sociale ed economico. Al dato della riabilitazione che seppur condannato non fa parte della mia persona, ricordando che nella gran parte dei casi – evidenzia Falbo – condanna non equivale a colpevolezza ed io sono tra questi, non voglio entrare nel merito di questo “pseudo” processo “Timpone Rosso”, non l’ho mai fatto sino ad ora, potevo replicare ai vari giornali che hanno infangato la mia famiglia, nonché la mia famiglia con notizie false e capziose. Il risultato ottenuto di sicuro non ha dato giustizia alle povere vittime e alle loro famiglie. Io sono stato una vittima del processo “Timpone Rosso”, la stessa ingiustizia ha fortemente avuto ricadute negative nella mia vita personale e familiare sotto molti profili, ad esempio immagine, reputazione, onore, riservatezza, identità personale, attività economiche; il tutto può essere definito come danno da attività giudiziaria lecita. In questi anni d’ingiustizia voglio rimarcare il dato che “commettere ingiustizia è peggio di subirla”. L’ingiustizia ha un costo umano ed economico molto alto per lo Stato, le sentenze sono in nome del popolo e il popolo non ha avuto piena contezza su come sia stato svolto questo “pseudo” processo. Il popolo coriglianese ha solo appreso dai giornali il dato sulla condanna subita, la stessa condanna non ha spiegato agli stessi chi sono stati i mandanti, chi gli esecutori, il movente, il motivo di una pena inadeguata ai fatti contestati e posso elencare una serie di gravi doglianze…”.
“Questo processo – prosegue Falbo – è stato ed è una pena; lo Stato per esercitare un suo diritto, quello di ricercare un colpevole, sacrifica in modo particolare la libertà del cittadino. Nel caso che ci occupa è stato giusto per lo Stato compensare questo sacrificio, il risultato avuto è stato la violazione del diritto meno forte che è quello dell’individuo, in altre parole la mia persona è stata un mero strumento per soddisfare l’interesse pubblico di ricercare un colpevole a tutti i costi… Il mio traguardo universitario è volto a scovare la verità che per forza di cose non vuole emergere, ma sono sicuro che il tempo riporterà la tanto legalità bramata a discapito dei forti che faranno di tutto per non farla comparire”.
Fabio Pistoia