Amico mio, compagno di tante discussioni e battute pungenti, persona capace di farsi voler bene perché semplice, buono, gioviale, con la battuta pronta e sempre disponibile. Mai avrei pensato di doverti salutare, di doverlo fare così presto, di dover asciugare tante lacrime per un addio al quale non ero pronto. La notizia della tua morte è arrivata con il suono di un messaggio sul telefono, anonimo ma capace di portarsi dietro un carico di dolore difficile da sopportare. Ingiusto.
Ho chiuso gli occhi, illudendomi che il serrare le palpebre sarebbe stato sufficiente a tener dentro le lacrime. Ho provato a mentirmi, immaginando un errore: un incubo, un brutto scherzo, un’illusione.
Caro Angelo, amico mio. Parlare con te era un esercizio capace di regalarmi benessere, perché riuscivi a mettere amore e dedizione in tutto quello che facevi. Amore per tua moglie, amore per i tuoi figli, amore per il giornalismo e la scrittura, amore per la tua terra, amore per la vita, amore per la gente.
Ho avuto la fortuna di conoscere te: amico prezioso del quale ero orgoglioso, con il quale era estremamente efficace discutere, perché il nostro confronto mi serviva per arricchire le mie conoscenze.
Ci eravamo parlati qualche giorno fa, con la promessa di incontrarci proprio in questa settimana, perché dovevamo mettere a punto l’intervista da inviare al giornale sul tuo ultimo lavoro “Il Caso Perri”. Sì, questo era il periodo in cui la nostra amicizia si era infittita, ma questo perché avevo notato in te l’amore sincero, vero verso il giornalismo, la scrittura e questa nostra vituperata ma amata città con tutto il suo territorio.
E invece, no. Te ne sei andato così in una fredda e piovosa serata di febbraio. Una morte straziante, terrificante, improvvisa e al tempo stesso assurda. La morte è tremenda e devastante.
E mi manchi, diavolo come mi manchi. Perché ho ancora bisogno di una parola, di una tua parola. Sulla mia scrivania ho il tuo libro, mentre nel computer il Punto di gennaio, quel numero dove tu, giustamente, anche se con non poca amarezza, festeggiavi i dieci anni di vita. Tutto ciò, credimi, è l’unico modo che ho per tenerti qui.
La tua amarezza, che era anche la mia, l’avevi descritta, come sempre, bene e con chiarezza sul tuo mensile: “Devo ammettere, con onestà intellettuale, con mestizia e dolore insieme, che gli auspici prefissatimi con la nascita del mensile non hanno sortito gli effetti sperati. In tal caso, vi chiederete del perché io insista nella divulgazione? Non credo siano motivi legati a frustrazioni giovanili come il protagonismo o l’egocentrismo, allora cosa? Forse, è il cuore che parla, è la speranza che, magari insistendo, qualcosa alla fine uscirà, che proseguire, in fondo, conviene. Certo non essere riuscito a creare opinione, nei limiti sperati, non è, poi, un gran pecca, considerato il materiale umano, quello indigeno, tra i più difficili in assoluto. Ecco, avere di fronte un avversario così coriaceo è arduo resistere. Ritengo, però –anche amici e gente comune me lo hanno suggerito-che insistere, alla lunga sarà possibile intravedere un lontano lumicino nel profondo tunnel delle coscienze”. Ecco caro Angelo era questa tua “testardaggine” che io ho sempre ammirato e che porterò come una traccia indelebile dentro di me.
Una volta, un giorno in cui stavo male, mi hai scritto che “credi sempre in quello che fai e in quello che scrivi e non avere rimorsi o timori”, te lo ricordi? Io sì: e continuo a ripetermelo per convincermi che vince anche il silenzio. Quello nel quale mi hai lasciato, in una fredda e piovosa serata di febbraio.
Giacinto De Pasquale