(da LIDHJA N°5/1982)
Tempo fa mi capitò di leggere un poemetto epico-lirico di G. Berchet « I profughi di Parga». Stilisticamente scadente e con una metrica cantilenata tipica di molta poesia dell’Ottocento, attirò tuttavia la mia attenzione per un brano della prefazione : « una donna narra le vicende di Parga, città dell’Albania, ceduta poco generosamente dall’Inghilterra ai Turchi nel 1819. Per non accogliervi i nuovi oppressori gli abitanti avevano preferito abbandonarla in massa».
Cercai subito Parga sulla carta geografica, ma non la trovai entro i confini dell’attuale Albania, bensì nel basso Epiro Greco.
Lo sconcerto fu duplice. Prima perché ero convinto che quella regione balcanica fosse stata invasa dai Turchi sin dalla morte di Scanderbeg, poi per il fatto di trovarla in Grecia. Era chiaro che nel gioco diplomatico tra la repubblica di Venezia, la Turchia e la Francia postnapoleonica, Parga era riuscita a conservare la sua identità albanese sottraendosi per quattro secoli alle mire dei Turchi ai quali non sfuggiva l’importanza strategica del suo porticciolo e l’amenità del sito.
Cerchiamo dunque di ricucire gli avvenimenti collegati col nuovo assetto geografico voluto dall’Inghilterra dopo la caduta di Napoleone.
L’Inghilterra cede Parga ai Turchi.
Ma chi erano questi terribili «Turchi» che dovevano prenderne possesso? Certamente islamici, che non avrebbero consentito il culto cristiano, ma imposto la legge del Corano. Ma se andiamo a leggere quella triste pagina di storia scopriamo che quei «Turchi» erano ( vai a fidarti delle prefazioni quando sono fatte da gente poco informata) albanesi al seguito di Ali-Pascià di Tepeleni , città dell’Albania, valido condottiero di scuola ottomana che dei turchi aveva assimilato costumi e religione. Certo non erano più i tempi in cui Giorgio Castriota, allevato ed istruito dai Turchi secondo la migliore tradizione islamica, riusciva a ripudiarne l’educazione facendo prevalere i suoi sentimenti cristiani e nazionali albanesi.
Dopo circa quattro secoli troviamo invece un Ali-Pascià che già nel nome si confonde con un qualsiasi dignitario anatolico, munito di daga ed ornato di turbante, la cui ambizione militare era indubbiamente sorretta dalla fede in Maometto. Ciò nonostante il suo sentimento nazionale albanese dovette riaffiorare prorompente se è vero che si rivoltò contro i Turchi vagheggiando l’indipendenza dell’Albania e conquistando quasi tutto l’Epiro e la Toscheria con le armi o addirittura con azioni diplomatiche, come quella, appunto, con gli Inglesi, che gli fruttava Parga.
Immaginate! Parga che viene abbandonata da tutti gli abitanti albanesi per essere occupata da … altri albanesi.
E’ l’ennesimo tributo di questo popolo alla tragedia della diaspora.
Quali le cause? Innanzitutto la collocazione geografica per cui gli Albanesi si sono trovati ad essere testa di ponte tra Oriente ed Occidente. Punto d’incontro e di scontro tra civiltà, religioni e potenze militari talora lontanissime.
Le montagne dell’Albania avrebbero dovuto costituire l’ultimo ostacolo alle orde dei Barbari che premevano dall’Oriente nella millenaria aspirazione di raggiungere il mare Adriatico, porta dell’Occidente. L’Adriatico, a sua volta, doveva costituire un ostacolo alle pressioni egemoniche di Roma che guardava con sempre più insistenza ai territori orientali ben oltre il Danubio. Indubbiamente queste poderose pressioni contribuirono enormemente a fare degli Albanesi un popolo di soldati sempre sulla difensiva, pronti a respingere le frequenti invasioni. Ma come tutte le strategie difensive quella degli albanesi era destinata a fallire (la migliore difesa è l’attacco).
L’aveva forse capito l’albanese Pirro, re dell’Epiro, che con le sue truppe aveva attaccato con iniziale lusinghiero successo la penisola italica. Ma il suo sogno di conquista si spegneva nella disfatta finale e, con esso, si dissolveva la vagheggiata «Grande Albania».
Ciò che ne seguì è noto. I romani, dopo ulteriori aspre lotte riescono a controllare l’opposta sponda dell’Adriatico e, con rassegnato consenso degli Albanesi, costruiscono la « Via Egnatia», che raggiungeva Costantinopoli nonché la formidabile arteria che partendo da Durazzo assicurava i collegamenti con la Dacia (attuale Romania), scavalcando, con un’imponente opera di ingegneria il Danubio alla «porte di ferro». Nei secoli che seguirono la simbiosi fu perfetta, gli Albanesi conservarono la loro identità, lingua e costumi, contribuendo a rafforzare in modo determinante l’Impero e contemporaneamente la propria etnia. Al crollo dell’Impero tutto lo sforzo difensivo fu accollato dagli albanesi che lentamente dovettero cedere alla prepotente calata degli Slavi che si insediarono nella Penisola balcanica prendendo il nome di Jugoslavi, cioè Slavi (dalla derivazione sclavi) del Sud. Da sud premevano a loro volta i Bizantini che non esitavano a impadronirsi dell’Epiro, dell’Acarnania e della Macedonia. Cosa restava agli Albanesi se non arroccarsi sulle montagne in una lunga incubazione? Tuttavia un «modus vivendi» fu trovato anche con i Greci, come attesta la nutrita presenza albanese in tutta l’Ellade. L’ultimo dramma consumato sul sangue albanese è stata l’invasione Turca. Nonostante tutto esiste ancora una razza ed una lingua albanese che gli sconvolgimenti della storia non sono riusciti a cancellare.
ERNESTO SCURA
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(*) L’A., nato a Corigliano da genitori arbëreshe di Vaccarizzo Albanese, scrive correntemente la lingua albanese avendo partecipato ai Seminari Internazionali di Lingua e Cultura Albanese di Prishtine (Kosovo – Jugoslavia). Pur essendo ingegnere, L’A. è un cultore di albanesità, proteso a scavare ed attingere dai suoi viaggi elementi universali unificatori validi per l’ARBËRIA, intesa come diaspora. Ha pubblicato in LIDHJA : “Viaggio a ritroso in albania e in Grecia”, (n.2-3, 1981, pp. 10-11); “Albanesità: indagini e deduzioni” (n.4, 1981, pp. 1-2); “Genesi di una diaspora”, (n.5, 1982, p.77).”Gli Illiri nell’Afghanistan” (N°8/1982).