PREFAZIONE
Da qualche tempo, con lo spirito di non sprecare gli anni che mi restano ancora da vivere, che – ahimè – sono molto di meno rispetto a quelli già vissuti, ho intrapreso un percorso di ricerca e di documentazione sulla mia città natale,
dedicandole un sito web (www.coriglianocal.it.); niente di particolare, sono soltanto pagine scritte con la penna del cuore e trasportate dal vento della memoria, erranti in questo mondo moderno, ma sempre più piccolo e povero di valori.
Qui, ogni lettore può consultare ciò che inserisco quotidianamente, notizie, racconti, foto storiche, aneddoti e ancora altro, che ritengo siano utili alle nuove generazioni perché conoscano di più e meglio le nostre radici.
Gli argomenti sono molti (tanti pure i visitatori) e non mancano notizie biografiche su alcuni uomini, che si sono distinti nella nostra città per opere ed impegno, fatti e storie, che hanno goduto di qualche popolarità, come scrittori, medici, artisti, poeti, amministratori e altri.
Già gli “altri”, ma chi sono costoro? Sono uomini comuni. Correvano ancora gli ultimi anni dello scorso millennio quando decidevo di dedicare un po’ di spazio, oltre alle stradine acciottolate dai colori della vita ’i ri vicinanzi (dei vicinati), ai commercianti, che animavano di mercanzie ed arte ’i putighi (le botteghe), anche agli uomini semplici, umili e noti per la loro grande popolarità.
Era questa la “mia” città, quella di tutti, ove si viveva certamente con difficoltà e sacrifici, ma con onestà e rispetto, senza alcuna distinzione di sesso, di età, di lingua, di razza, di religione, di opinioni politiche o di mille altre contraddizioni sociali.
Sì, perché gli “altri” erano anch’essi miei concittadini, forse anche degli “humiles” di manzoniana memoria, ma che hanno contribuito pure loro alla storia cittadina.
Anzi, quali semplici persone, oneste, infaticabili, senza filtri, vivendo a volte ai margini della società, che li considerava essenziali, ma non importanti o degni di considerazione, con poche risorse materiali e molte umane, hanno fatto tutto ciò che era possibile fare, a volte anche l’impossibile.
Gli “altri” sono questi, tutte quelle persone che hanno lavorato e lavorano nell’ombra, nell’anonimato, nel silenzio assordante della prevaricazione e della prepotenza sociale. Sono queste le persone, risplendenti di solitudine, che resteranno per sempre ben impresse nella mia memoria.
Con curiosità e simpatia restavo colpito da loro quando li vedevo passare da casa mia, nell’antica contrada della Grecìa (oggi al civico 6 di via Carso), oppure quando mi recavo dalla mia cara nonna, za ’Ntunetta, a ru Fuossi Bianchi (Largo Pasquale Curti), attraversando l’Acquanova, gremita di gente di ogni condizione sociale, dove non mancavano anche gli “altri”, sempre in cerca di ritrovare la propria serenità offuscata da uomini che facevano della calunnia il loro stile di vita.
Erano uomini di fatica, banditori, ambulanti, che vendevano tutto e di più, sagrestani, bocche di rose, nobili che vivevano segregati in famiglia, musicisti itineranti, artigiani dalle mani ruvide e nodose, che spesso per un piatto di lenticchie, ma a volte anche meno, svolgevano lavori particolarmente faticosi e umili, donne che in perfetto equilibrio scorrevano lentamente reggendo una cesta in vimini piena di panni sulla testa, appoggiandola supra ’u stifagni (cercine di tessuto), dirette verso le limpide e fresche acque del torrente Coriglianeto a lavare panni.
Erano, altresì, uomini e donne del loro tempo, che hanno affrontato la vita nel dolore della povertà e della miseria, quasi sempre in piena solitudine, privi di ogni supporto morale e materiale e rapporto affettivo, spesso emarginati dai loro simili, da uomini senza scrupoli, senza rispetto, ma soprattutto senz’anima.
Sono stati questi “altri”, dotati di una grande sensibilità e di profondi sentimenti, che, con la loro bellezza d’animo e il loro coraggio di vivere senza farsi condizionare dai giudizi altrui, mi hanno insegnato molte cose, tra queste, in particolare, come affrontare le difficoltà della vita con lo spirito giusto e la voglia di non mollare mai.
Ecco perché mi piace definire impropriamente “miei personaggi” queste persone, perché li sento idealmente vicini al mio mondo interiore, fino a diventarne parte integrante, per distinguerli da quelli (guerrafondai) studiati a scuola su testi di storia, presentati come eroi, ma i cui nomi da tempo, come quei libri, giacciono inermi in un vecchio cassetto, pieno di ragnatele, nella buia soffitta dei miei ricordi.
Queste persone, “figli di un Dio minore”, talvolta sottomesse e incerte, altre volte, invece, ribelli e sicure, sono stati uomini e donne travolti da situazioni balorde e ipocrite, inventate e mistificate da falsi filosofi e dai naviganti dei mari dell’odio e dell’emarginazione, mentre altri, pur non possedendo alcun titolo di studio (analfabeti), sono stati dei veri artisti nel campo della musica e in quello del lavoro.
Ho riflettuto a lungo prima di decidere se pubblicare o meno questi racconti, che ho iniziato oltre venti anni fa.
Ero titubante perché certo di subire non poche critiche da parte di alcuni “benpensanti planetari”, che magari proveranno disgusto per queste mie pagine dedicate agli umili e agli “ultimi” perché magari avrebbero preferito che non se ne parlasse, cancellandone per sempre sui muri della memoria i nomi, ritenendoli un disonore per la città, mentre di altri scrivono i nomi, a carattere cubitali, sui muri della vanagloria.
Ebbene non l’ho fatto, perché appartengo ad un mondo diverso da quello di questi falsi moralisti, “esperti” di un conformismo alterato, che amano viaggiare sul treno del fariseismo.
Nel mio cammino non ho mai amato viaggiare in compagnia di costoro, che con la “virtù” dell’ipocrisia sanno solo dire: “lasciate in pace nei loro avelli queste persone che hanno già sofferto durante la loro vita”. A queste persone dico: “Perché lasciar dormire nei loro avelli solo alcune persone e le altre no? Forse non siamo tutti sotto lo stesso cielo figli dello stesso Dio?”
Ecco, questo è il vero motivo, per cui oggi, in netta contrapposizione con questi oscuri “viaggiatori dell’ambiguità”, ai quali consiglio di fermarsi alla sola lettura di questa mia prefazione, sono qui a ricordare alle nuove generazioni questi uomini e queste donne, con il loro nome, cognome, soprannome, a volte, quando mi è possibile, anche coi loro volti rugosi per la fatica e per la sofferenza.
Solo così si potrà ridare la dignità negata ad alcuni, mentre ad altri il giusto riconoscimento per avere condotto una vita all’insegna della famiglia e del lavoro, superando talvolta le dure e impervie salite della vita.
Concludo qui, con queste semplici riflessioni sincere, autentiche ed accorate note della loro vita, perché è giunto il momento di dare spazio all’inchiostro della mia penna, con buona pace dei “benpensanti”, ai quali mi piace ricordare un assioma, che la storia non è fatta dai “grandi”, ma dalla moltitudine di gente operosa e onesta, che ha saputo dare al nostro paese ed alla sua gente una grande lezione di vita.
Solo se avremo consapevolezza della memoria e delle opere di chi ci ha preceduto, sapremo essere degni dei nostri padri e potremo ricalcare le loro orme per diventare uomini migliori, figli di una terra generosa e spesso maltrattata, ma che ha saputo offrire la possibilità di riscatto, con sacrificio, umiltà, coraggio e fede in Dio.
Queste pagine sono dunque la voce di quei Coriglianesi umili, ma ricchi di dignità e coraggio, scritte con la consapevolezza che “La vita è una lunga lezione di umiltà” (James M. Barrie).
Giovanni Scorzafave