di Papàs Elia Hagi, parroco di Vaccarizzo Albanese.
“Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà.
San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine”. Così scriveva Papa Francesco nella sua lettera apostolica “Patris Corde” sulla figura di San Giuseppe.
Mi piace immaginare che ognuno di noi abbiamo la capacità di attribuire un grande valore all’umiltà. È una parola che apre suggestioni importanti ma che apparentemente è superata perché suona come una virtù imposta in tono paternalistico. San Giuseppe di cui poco sappiamo è stato un velo che ha nascosto e protetto Cristo senza vantarsi e attribuirsi grandi meriti; infatti, viene menzionato nei Vangeli solo “en passant”.
Ma nella vita nostra, quella di tutti i giorni, cosa rimane dell’umiltà? Certo, ci sono parecchi cristiani che coltivano faticosamente il giardino dell’anima, piantandovi con amore la fragile pianta dell’umiltà. Secondo la tradizione, l’umiltà denota la coscienza del proprio limite in relazione a Dio. Rudolf Otto ci ha ricordato un cosiddetto “sentimento dello stato della creatura”: ammetti, razionalmente, di non averti dato la tua vita da solo, che l’esistenza stessa è qualcosa di più grande di te. Ammetti il tuo “posto”, oggettivandolo modestamente, nell’immenso scenario dell’universo. Questo lo può ammettere anche il non credente, senza provare “umiltà” di fronte alla realtà profondamente misteriosa che include tutti noi, al di sopra di un “credo”. L’umiltà intesa cristianamente richiede una confessione di fede. Resta intimamente connesso con il rapporto con Dio, con quell’Altro radicale, che, pur incarnato in Cristo – e rappresentato iconicamente nel mondo bizantino – resta irriducibile ai giudizi umani.
L’umiltà si basa sul paradosso dell’infinitamente imponderabile. Se è troppo visibile, inizia a diventare sospetta di ipocrisia o di una certa esibizione farisaica. Quindi deve essere impercettibile?
No, perché allora non avrebbe più la caratura spirituale che gli attribuiamo. È piuttosto legato alla delicatezza dell’anima: un atteggiamento moderato, discreto, che non invade nessuno e si astiene da giudizi taglienti, senza accontentarsi di ambiguità o relativismo etico. L’umiltà vive in base ai suoi effetti piuttosto che in base alle sue premesse. Ad esempio, quando assistiamo a un gesto di vero altruismo, percepiamo contemporaneamente l’umiltà del suo autore, che si mette nell’ombra per mettere al centro dell’attenzione il prossimo. Un uomo veramente umile coltiva anche l’autoironia. Non si prende sul serio, non si preoccupa delle sue virtù o delle sue pretese. Accetta che, nella tragicommedia della condizione postparadisiaca, l’umano abbia qualcosa di ridicolo, perché è sotto il segno del peccato, dell’errore e dell’approssimazione. L’umiltà afferma che il progresso umano implica “l’obbedienza” a una corte trascendente. C’è forse umiltà anche nell’agnosticismo dello scienziato: ha il buon senso di ammettere che non può produrre prove della non esistenza di Dio.
La verità è che l’umiltà è diminuita drasticamente. Siamo sempre più individualisti, narcisisti ed egocentrici, e il prezzo pagato non è solo l’alienazione tra le nostre tante illusioni, ma anche la solitudine nella folla, che ci comprime sempre più dolorosamente. In quest’ora di sofisticata decadenza postmoderna, avvertiamo i benefici dell’umiltà proprio perché ne soffriamo l’assenza. Come ogni veicolo spirituale va assunta come un fatto interiore. Non puoi mostrare l’umiltà attraverso i social network, ma piuttosto nello spazio della meditazione, dove ti siedi a disagio, notando con amarezza i fallimenti così chiaramente opposti alle bugie che di solito ti racconti. Per quanto discontinua, l’esperienza dell’umiltà è anche una sorta di salutare ripristino di tutto ciò che sei, a scapito di ciò che presumi di essere.
Se guardiamo ai nostri padri e ai padri dei nostri padri, notiamo il loro esempio umile nel sacrificarsi per la propria famiglia nelle vicende quotidiane della vita. Come disse un anziano dell’Oriente cristiano: “L’umiltà non è uno dei piatti del festino, ma il condimento che insaporisce tutti i piatti”!