di Rosella Librandi Tavernise
Nei paesi arbëreshë, cattolici, di rito greco-bizantino, la commemorazione dei defunti cade undici giorni prima delle Ceneri, sempre di sabato e a Febbraio: a Vaccarizzo, nella settimana che precede tale giorno, si svolgono setenat (settenario di preparazione); la campana che chiama i fedeli suona mbëlik e la chiesa è sempre gremita di gente (fino a qualche tempo fa chi era in lutto stretto andava in Chiesa solo in questo periodo e alla processione del Venerdì Santo).
Presso l’altare, su un tavolino si dispongono la Croce e tanti lumini che vengono accesi dai fedeli. Al termine della funzione religiosa, che si svolge nel tardo pomeriggio, si canta “a canone”: due gruppi vocali, distanziati, cantano alternativamente, ripetendole, le strofe di una lunga e commovente lirica intitolata «Oj Zot të qosha truar!» (Signore, abbi pietà di me) scritta da Giulio Variboba, prete e poeta di San Giorgio Albanese, vissuto nel 1700.
Sentita e commovente, fra le altre, è l’invocazione:
«Jpi rëpoz oi Zot, jpi rëçet, ti vëdekurit jpi drit tek jetra jet»
«Oh Signore, da’ al morto riposo, dagli quiete, dagli luce nell’altra vita.»
Ricordo che quando ero piccola la semioscurità della chiesa, l’aspetto mesto e grave delle donne in abiti di lutto e il canto cantilenante, creavano un’atmosfera quasi irreale che mi angosciava.
All’inizio di questa settimana, nelle case di lutto recente, si mette a mollo nell’acqua abbondante grano: si sceglie col chicco bello grosso, si monda con cura e dopo qualche giorno lo si mette a bollire nei calderoni, quindi se ne distribuisce a parenti e conoscenti e a quelli che il giorno dei morti «ven për limoznen i ti vdekërvet» (girano per il paese chiedendo l’elemosina nel nome dei defunti).
Il sabato (e shtunia i t’ i vdekërvet), giorno in cui si concludono i riti in onore dei
morti, si è svegliati all’alba dai bambini che girano a gruppi per il paese e, bussando ad ogni porta, gridano «Ndje Zot!» (ascolta Signore) e in ricordo dei propri cari si dà loro olio, spiccioli, pagnotte e grano bollito che si mangia condito con mosto cotto o zucchero o fritto in padella con un po’ di olio e sale (così lo preferiva mio padre).
Le persone adulte, in questo giorno, non girano più come un tempo a chiedere l’elemosina per« shpirtin i ti vdekërvet» e i bambini lo fanno per gioco, attratti dalla novità del fatto e dai soldini: perciò, per accontentarli, per loro si mettono da parte gli spiccioli già molto tempo prima.
Tempo fa salivano in paese, a chiedere l’elemosina, gli zingari stanziali alla stazione di Corigliano Calabro, confidando in una generosa offerta che avrebbero ricevuto chiedendola per l’anima dei morti.
Priva di fondamento teologico è la credenza popolare secondo cui i morti in questa settimana tornano nei luoghi dove hanno vissuto: per cui bisogna indicare loro la via di casa mettendo sul davanzale di una finestra un lumino preparato in un bicchiereriempito con acqua e olio e, sul galleggiante, si pone e si accende miçarieli, il fiorellino essiccato dell’erba ballota.
A Vaccarizzo il sabato mattina si celebra in Chiesa la Santa Messa in suffragio dei morti e, terminata la funzione, Zoti (il Papàs) seguito dai fedeli, in processione, si reca al cimitero dove benedice tutti i morti all’ingresso e, poi, girando per i vialetti, si ferma presso le tombe dove gli viene richiesto, le benedice e recita preghiere e canti per il morto lì sepolto. Tutto questo avviene con l’accompagnamento della banda musicale che suona una struggente marcia funebre, per sottolineare la tristezza del momento.
Nel pomeriggio, poi, il prete gira per le case in lutto, dove viene chiamato, «s t’ngrӕnj panagjin» cioè per procedere a un piccolo rito simbolico che si svolge in suffragio dell’anima del defunto: al centro di una stanza, su un tavolino, si dispongono: un lume, llamba (simbolo dell’immortalità dell’anima), due pani (kravele) e una bottiglia di vino (simboli sacramentali), una coppa contenente il grano bollito (còlivo) e la foto del caro estinto. Il prete recita preghiere e canti, benedice i presenti aspergendo l’acqua benedetta e distribuisce pezzetti di pane e grano.
Il grano è il simbolo della Resurrezione: come il chicco non muore sotto terra ma rinasce a nuova vita, così la vita dell’uomo non termina con la morte ma continua nell’aldilà.
Naturalmente, in questo triste giorno, anche nei nostri paesi, andando al cimitero, si accendono candele e si mettono fiori sulle tombe e si prega per i propri cari, come in ogni altro paese del mondo.
Nota
Di origine e significato diverso è la tradizione, nell’Italia Meridionale e in Sicilia, di mangiare il grano bollito conciato, ora, in vari modi: essa risale, probabilmente, al lontano 1646 quando Palermo fu colpita dalla carestia. Dopo tante preghiere, miracolosamente, il 13 Dicembre giunse nel porto della città una nave, di
provenienza sconosciuta, carica di grano: il popolo affamato e stremato non avendo le forze e il tempo per dedicarsi alle varie fasi della panificazione decise di mangiare il grano dopo averlo bollito, condito semplicemente con sale e olio (così nacque la cuccìa salata). Da allora il 13 dicembre, giorno della festa di Santa Lucia, a Palermo non si mangiano prodotti fatti con la farina di frumento.