“Una storia strana, sembrerebbe una scena da film, ma purtroppo non è così. È successa per davvero ed è successa a me! Ti autodenunci come pochi hanno il coraggio di fare, dici “è per il bene della comunità”. Chiudi due attività, “ma non importa, non puoi mettere a rischio altre persone”.
Dopo 3 giorni di influenza, decido di fare il tampone antigenico rapido, esito positivo. Da lì, a detta del mio medico di base, si attiva la procedura di quarantena restrittiva obbligatoria da fare a casa. Aspetto due giorni e non ricevo nessuna chiamata da parte dell’Asp di Corigliano-Rossano. A questo punto, decido di contattarli io, si prendono tutti i dati necessari anche dei miei contatti più stretti, restando in accordo che sarebbero venuti a casa a farmi il tampone molecolare. Da premettere che, sono in attesa dal 9 novembre 2020”.
Esordisce così, in una lettera aperta nella quale racconta in modo accurato la sua delicata esperienza personale, una concittadina residente nell’area urbana di Corigliano, la signora Maria Rosaria Longobucco. Il suo racconto si configura come una disamina della situazione vissuta sulla propria pelle e sulle vicissitudini che si trovano talvolta a percorrere le persone affette da Covid-19.
“Da buona cittadina – scrive la signora – rispetto le regole, io e la mia famiglia, vivendo separati. Ognuno nelle proprie stanze come appestati, senza contatti per quindici giorni. Nonostante la terapia, le mie condizioni peggioravano sempre più e, sotto consiglio del mio medico di base (che ogni giorno mi è stato vicino chiamando per chiedere delle mie condizioni), sentendomi stanca ed affaticata, venerdì 20 novembre mi consiglia di chiamare un numero dedicato ai pazienti Covid per richiedere una visita domiciliare e una tac urgente. Ma ovviamente tutto questo non era possibile, nessuno aveva le competenze per aprire tale pratica. Sono stata sballottata dall’Asp di Cosenza a quella di Corigliano. Era un preciso dottore che doveva richiedere la visita, così come il tampone e la restrizione domiciliare, ma ad oggi non ho ancora avuto nulla di tutto questo. Dopo tanti tentativi e l’aggravarsi della situazione, decido di chiamare il 118 – prosegue la signora – che ha ritenuto opportuno portarmi in ospedale, mi trasportano così al polo Covid dell’ospedale “Annunziata” di Cosenza. Mi fanno tutti gli accertamenti del caso, inclusi emocromo, emogasanalisi, tac e tampone. Gli esiti sono chiari: ho una preannunciata polmonite bilaterale al 20-30 per cento, ma la cosa strabiliante è che il mio tampone risulta negativo. Così mi dicono che la decisione è solo mia: devo decidere se tornare a casa o restare. A questo punto, decido di rientrare a casa e di fare la terapia domiciliare, essendo negativa al Covid-19. Ma dalla mia decisione mi ritrovo a dover restare per ripetere il tampone il mattino successivo. Resto in un reparto con decine di persone positive al Covid. Ritengo che questa fosse la decisione più adatta perché non mi sentivo sicura, le alternative erano due: firmare e farmi venire a prendere da mio marito, restando col dubbio se fossi positiva o realmente negativa, mettendo a rischio la sua salute e mandando all’aria 15 giorni di sacrifici e sofferenza, oppure dormire in una sala d’attesa su una sedia con una conclamata polmonite in atto, vicino alle porte aperte del pronto soccorso, al freddo e alle intemperie della notte. Così è stato, ho passato la notte su una sedia di plastica, con una tosse che non mi ha permesso di chiudere occhio e con la necessità di una puntura di cortisone, arrivata solo dopo varie sollecitazioni e reclami. Nonostante l’attesa, la situazione non cambia. Senza sapere nulla fino alle ore 16.00 del successivo pomeriggio, sono rimasta al di fuori del reparto, all’aperto nonostante il freddo, poiché essendo negativa non potevo rischiare di “soggiornare” in un reparto dedito a persone positive al virus. Dopo ore di attesa, finalmente arriva l’esito del secondo tampone, fortunatamente anche questo negativo”.
La signora Longobucco conclude la sua lettera aperta con un accorato invito al rispetto di tutte le persone, ivi comprese quelle contagiate dal Coronavirus.
“Scrivo tutto questo perché è più che opportuno denunciare, far sapere a tutti lo stato di malasanità che opprime la Calabria, sempre più evidente, ma ancor di più in un momento così delicato. Denuncio la precarietà del nostro Paese. Sono più che sicura che, a malincuore, nella mia stessa situazione ci siano finite tantissime altre persone. Denuncio perché i “positivi” non siano ritenuti solo dei numeri, ma principalmente delle persone e, per ultimo, ma non per importanza, vorrei denunciare sì la mancanza di strutture, sì il mancato supporto dello Stato, ma ricordare che fare il medico è una professione che si fa per dedizione e per vocazione e la mancanza di umanità e rispetto nei confronti dei pazienti è davvero la cosa più raccapricciante. Nella speranza che ci sia un giorno migliore per tutti”.
Fabio Pistoia