Negli anni ’50 si ricominciò ad andare al mare, “te deiti jon”, al nostro mare, ovvero alla marina di Corigliano Calabro, Schiavonea. Su questa stessa spiaggia, dopo il lontano 1468, arrivarono gli Albanesi trasportati dalle navi schiavone e veneziane, in seguito alla morte dell’eroe nazionale Skanderbek e alla conseguente occupazione turca dell’Albania. Qui gli Schiavoni portarono anche il culto della Madonna nera detta della Schiavonea o de Illirico.
Scendendo da Vaccarizzo, situato a circa 450 m.s.l.m., si ammirava uno spettacolo impareggiabile: il mare dai colori cangianti era sempre più vicino; l’odore salmastro si sentiva sempre più acuto e gradevole; con lo sguardo si abbracciava tutta la piana di Sibari sottostante e, a Nord-Ovest, la lunga catena del Pollino.
Alle spalle si lasciavano via via le colline, ultime propaggini della Sila Greca coperte di uliveti e, dopo solo 15 Km, si arrivava alla stazione di Corigliano e si imboccava Viale Margherita, un rettifilo fiancheggiato da platani disposti «in duplice filar» e…finalmente Schiavonea!
Qui le bellezze architettoniche si sostituivano a quelle paesaggistiche: il vasto spiazzo d’ingresso era contornato da imponenti opere monumentali: di fronte a noi la maestosa porta Sud del Quadrato Compagna detta “porta a Corigliano”, guardando a sinistra, il Santuario con l’elegante doppia scalinata, la Torre del Cupo e l’edificio della Taverna.
Nel dopoguerra Schiavonea era solo un borgo di pescatori: questi portavano i pantaloni arrotolati fino a metà gamba, la maglia di lana grezza, rumorosi zoccoli di legno e stavano davanti alla porta di casa a fare le reti e a riparare quelle smagliate, con grande abilità, oppure stavano sulla spiaggia a calatafare le barche.
Per soggiornare alla marina, i cosiddetti “bagnanti” dovevano prendere in affitto la modesta casa dei pescatori e portarvi le masserizie dal paese, con un camion o con la carretta (traìno) di Ciccillo trainata dal cavallo. Non c’erano negozi ben forniti ma solo qualche negozietto che vendeva l’indispensabile perciò, dal paese, si doveva portare ogni tipo di provviste: soprattutto grandi quantità di pane, taralli, frese e “kulieç tæmblia” (ciambelline dolci).
Però c’era, ben fornito, il mercato del pesce e della verdura: in abbondanza c’erano i cocomeri rotondi di un intenso colore verde scuro e il negozio dove si compravano gli orci per l’acqua, i tipici “trimbuni”, “knata”, “rogghjé”.
Nelle case non c’era l’acqua potabile e bisognava andarla a prendere “me roghjet” a Boscarello, una campagna distante un paio di Km dal borgo o alle fontanelle situate nelle porte del Quadrato. Le donne si accalcavano per riempire gli orcioli (“gummuli”) e nell’ aspettare il proprio turno il tempo non passava mai perché dalle cannelle scorreva un filo d’acqua appena e, quando una donna cercava di sorpassare un’altra litigavano e si accapigliavano urlando frasi come: «Mi ci a truveti!», cioè, «sono qui prima di te»; spesso durante i litigi gli orcioli di terracotta si rompevano.
“Zali”, la spiaggia, era bellissima: lunga e larga; la sabbia dorata e asciutta tempestata da puntini luccicanti; i sassolini, di colori e forme particolari, ne occupavano un breve tratto ma non era attrezzata come i moderni lidi: non c’erano gli ombrelloni e ci si riparava dal sole cocente all’ombra delle barche oppure sotto la tettoia costruita con un robusto telo bianco sospeso e legato tra due barche. Si stava quasi tutto il giorno sulla spiaggia, sia per usufruire al massimo dei benefici del mare, sia per evitare di stare nelle case dei marinai, non proprio comodissime. Nel tardo pomeriggio i barcaioli costeggiavano la riva e invitavano i bagnanti a fare un giro in barca, a pagamento, fino “in alto mare!”, dicevano. Passava pure il fotografo e chiedeva ai presenti se volevano farsi fotografare per una foto ricordo. I grandi mostravano la loro abilità nel far rimbalzare sulla superficie dell’acqua i ciottoli piatti (gioco nel quale ci cimentavamo anche noi piccoli). Noi bambini giocavamo in acqua e sulla spiaggia a cercare pietre colorate: quelle marroni striate di bianco ci sembravano pezzi di prosciutto; quelle di un marrone uniforme, pezzi di cioccolato e cercavamo anche conchiglie, cavallucci e stelle marine che rimanevano sulla spiaggia dopo le mareggiate.
Oltre ai bagni in acqua, le persone anziane facevano pure i bagni di sabbia: scavavano una lunga buca che si faceva riscaldare dal sole, poi vi si sdraiavano dentro e si facevano ricoprire con la sabbia tolta, essa pure riscaldata dal sole infuocato; si facevano anche i bagni di sole esponendosi a lungo ai raggi solari, spesso scottandosi, poiché non si usavano le creme protettive. Una vecchietta del mio rione, Rina Caiafa, prima di iniziare la “sua” stagione balneare seguiva una dieta ricostituente; il bagno lo faceva seduta sulla battigia e invitava l’onda a bagnarla, chiamandola: «nga suvàl, nga!».
“Spexianotet” (gli abitanti di Spezzano Albanese) avevano l’uso di fare i bagni, detti “pundaruli”, a Settembre.
Al mare si andava pure “me postallin” (con la corriera) dell’antica ditta S.A.V.A. (Società Autotrasporti Vaccarizzo Albanese) dei soci Granata, Minisci, Belsito e Scura che percorreva la tratta Acri-Rossano con deviazione a Schiavonea nel periodo estivo, oppure con una macchina di noleggio: si partiva la mattina e si ritornava nel tardo pomeriggio, perciò, per il pranzo, si portavano grandi teglie di melanzane ripiene, frittate, prosciutto e pere nostrane del tipo “zucchero e cannella”, molto succose, dolci e profumate. I cocomeri si compravano alla marina e si tenevano al fresco nell’acqua: alcuni si portavano a casa e, ammucchiandoli nel portabagagli, per non confonderli, i proprietari incidevano sulla scorza le iniziali del proprio nome. Dopo aver mangiato si faceva un pisolino all’ombra, accarezzati dalla fresca brezza marina.
Le donne anziane avevano paura di stare in mare perciò si reggevano alle cime delle barche; facevano il bagno indossando “linjen” (lunga sottoveste di robusta tela bianca) che nell’acqua si gonfiava come un enorme pallone e, all’uscita, si appiccicava loro addosso suscitando l’ilarità dei presenti.
Chi non sapeva nuotare usava come galleggianti una voluminosa cintura fatta con le rotelle di sughero regalate dai marinai (i quali le adoperavano per tenere sollevate le reti calate in mare per la pesca). Le rotelle venivano infilate in una cordicella che si allacciava al punto vita.
Finito il tempo dei bagni, prima di tornare a casa, si salutava il mare lanciando in acqua una manciata di sassolini, augurandosi di ritornare l’anno seguente. In ultimo si passava dal Santuario a ringraziare la Madonna per averci protetto e fatto trascorrere alla marina un sereno periodo di riposo.