“Storia dello scrivano di Rebibbia amico dei profughi della terra”. È questo il titolo di un interessante articolo, a firma di Sergio D’Elia, pubblicato nei giorni scorsi sul quotidiano nazionale Il Riformista. Un articolo che per quanti, come lo scrivente, credono fortemente in alcune storiche battaglie condotte con determinazione da associazioni e movimenti che si rifanno alla galassia radicale e finalizzate all’affermazione dei diritti civili di tutte le persone, non poteva passare inosservato; a maggior ragione se il protagonista di questa “storia” è un detenuto d’origine coriglianese che corrisponde al nome di Fabio Falbo.
Falbo, che sta scontando la sua condanna presso la Casa Circondariale di Rebibbia e negli anni addietro ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza, assolve, infatti, ad un ruolo di primo piano e di notevole utilità sociale al servizio di tutti coloro i quali stanno espiando una pena, tanto da suscitare l’attenzione mediatica.
“La figura dello “scrivano” – si legge nell’articolo – è un punto di riferimento essenziale in carcere e può essere l’ultimo salvagente rimasto dopo un naufragio nel mare di privazioni e patimenti forzati dove spesso annegano gli ultimi della terra, i condannati – colpevoli o innocenti che siano, in esecuzione pena per un misfatto ma anche in mancanza di un qualche misfatto – alla galera. Lo “scrivano” può essere l’unica ancora di salvezza per chi non sa né leggere né scrivere, per chi non sa la lingua per parlare, per chi, entrato sano, si è ammalato, per chi fuggito dalla fame e dalla sete continua a patirle, per chi è abbandonato da Dio e dagli uomini, per chi è senza una famiglia dietro le spalle o una difesa davanti a un tribunale. Fabio Falbo fa lo “scrivano” a Rebibbia, nel braccio di alta sicurezza. In base al regolamento, sarebbe l’addetto alle “domandine”, alla compilazione di istanze e alla distribuzione di moduli. In realtà fa molto di più: dà senso e corpo a buona parte delle sette opere di misericordia corporale: si premura che nella sua sezione l’affamato abbia da mangiare, che l’assetato abbia da bere, che l’ignudo sia vestito, che l’infermo sia visitato, che il carcerato sia difeso e non solo visitato. La sua opera non si limita al bene materiale, il suo pronto soccorso offre anche il dono di parole – ne ha un canestro pieno e inesauribile da distribuire – di vita, di amore e di speranza. Fabio Falbo è l’avvocato dei carcerati, ma anche un filosofo. Il Laboratorio di pratica filosofica dell’Università di Tor Vergata a cui ha partecipato è stata un’esperienza straordinaria, raccolta poi in un bellissimo libro dal titolo Naufraghi in cerca di una stella, nella quale ha scoperto che la luce da cercare non era in alto nel cielo, ma dentro di sé, ed era quella – ancora più capace a illuminare la via – della coscienza. Fabio Falbo è un garante dei detenuti, ma anche un visionario costruttore di realtà. Il Laboratorio “Spes contra spem” di Nessuno tocchi Caino in corso a Rebibbia, di cui è l’animatore più convinto, lo ha aiutato a cambiare sé stesso, il suo modo di pensare, di sentire e di agire e, per ciò, a cambiare il mondo in cui vive, l’ambiente in cui vive, il carcere in cui vive e anche il potere più ottuso e opprimente che domina la vita in galera. Fabio non raccoglie o dispensa solo “domandine”. Forte anche di una laurea in legge conseguita in carcere due anni fa, fa esposti di denuncia per le più gravi violazioni dei diritti umani, scrive istanze di sospensione pena per i più seri motivi di salute, inoltra richieste di detenzione domiciliare o di alternativa alla pena, prepara memorie difensive per quelli in attesa di giudizio, calcola i giusti cumuli di pena e ricalcola quelli sbagliati. Impara, prepara, integra, corregge, sovverte il lavoro di principi del foro e dei più alti magistrati. Da quando la pandemia si è abbattuta come un’ira di Dio sul nostro paese, Fabio si dedica anima e corpo all’opera volta a evitare che la malaugurata evenienza di un contagio possa colpire i carcerati e condannarli a morte, una pena abolita nel diritto, ma praticata di fatto nel per sua natura mortifero sistema penitenziario italiano. Alcuni giorni fa, Fabio ha scritto a me, a Rita Bernardini e a Elisabetta Zamparutti per dirci che era felice di aver fatto scarcerare alcune persone, condannate e in attesa di giudizio – anche per il reato ostativo di associazione mafiosa! – e che era in attesa di altre risposte da altre autorità giudiziarie: in caso di rigetto aveva già pronti i ricorsi ai tribunali in cui avrebbe sollevato anche questione di incostituzionalità. «Ormai sono in un campo di guerra giuridica per il diritto assoluto alla salute, da far valere non solo in questo periodo di emergenza sanitaria, ma anche dopo, perché la salute in carcere è uno stato d’emergenza permanente». Quando parla di diritto alla salute, Fabio pensa innanzitutto a quella dei suoi compagni di detenzione, non alla sua, alla malattia rara che si porta dietro dalla nascita.Ci fa sapere che Franco Gambacurta ha un solo rene ed è affetto da molte altre patologie. Ci informa che Giuseppe Gambacorta, ergastolano, ha subito due interventi al cuore, ha le difese immunitarie molto basse e per incognite ragioni è ancora detenuto in alta sicurezza. Ci segnala il caso di Alfredo Barasso che da novembre attende di essere operato ma con l’emergenza sanitaria in corso difficilmente lo sarà, sicché rischia di restare su una sedia a rotelle vita natural durante. Nella stessa sezione c’è Sergio Gandolfo, con vari problemi del sangue, un’insufficienza renale cronica, l’ipertensione arteriosa nonché il linfoma di Hodgkin. A nessuno ha mai detto che lui invece soffre di una patologia grave e rara, l’angioedema ereditario, che in situazioni di stress può esplodere in gonfiori della cute, delle mucose e degli organi interni che a volte possono risultare fatali. Da oltre un anno non ha più i farmaci per tenerla un po’ a bada. «La mia fortuna in tale condizione è lo studio che mi rilassa e non fa innalzare l’ansia e lo stress». Per avere il farmaco, che sembra irreperibile in Italia, ha inviato una lettera al ministro della Salute e anche all’Aifa, ma non ha ricevuto risposta. «Di questo non vi avevo mai detto niente perché non ho mai voluto accampare alibi per una misura meno afflittiva». Con i suoi modelli di richiesta di scarcerazione, che ha inviato ai detenuti – definitivi e giudicabili, con patologie e senza – in oltre trenta strutture carcerarie, pensa di far uscire ancora un gran numero di persone. «Al momento servo dentro e non fuori. Non voglio abbandonare nessuno in un frangente così delicato. Io sarò l’ultimo a presentare l’istanza del mio differimento pena». Fabio Falbo, quando uscirà, vuole trovare un alloggio a Roma per proseguire gli studi e continuare le sue opere di carità materiale e nutrimento spirituale nei confronti degli affamati, degli assetati, degli ignudi, degli infermi, dei carcerati. «Sono tante le cause da affrontare, la nostra battaglia è volta anche all’abolizione del carcere. Dobbiamo seguire l’esempio Ruth Wilson Gilmore, che in America lotta per questa causa da più di trent’anni». Sia letto questo articolo da chi di potere e di dovere come un “amicus curiae”, una istanza a beneficio della corte, nel caso in cui un domani, una corte, dovrà esaminare anche quella di Fabio Falbo, lo “scrivano” di suppliche per conto terzi, il dottore in legge votato al patrocinio dei dannati della terra, al pronto soccorso dei naufraghi della galera in cerca di una stella”.
Cos’altro aggiungere, dunque, a questa dettagliata descrizione di tale impegno profuso? Falbo, all’interno di quella è divenuta la sua seconda famiglia, ossia la comunità del carcere di Rebibbia, si è ritagliato un posto tutto per sé, stabilendo rapporti improntati alla cordialità e alla collaborazione con gli altri detenuti e col personale tutto. Questa odierna ne è la riprova, ennesima conferma che la cultura del diritto giammai è tale se non coniugata con la filosofia del rispetto d’ogni individuo, delle sue capacità e della legittima volontà di coltivare, sempre e comunque, passioni, esperienze, desideri al servizio della propria comunità.
Fabio Pistoia