Il suo nome è Francesco Ferraro ed è nato 26 anni fa a Corigliano Calabro. Pochi sono consapevoli del fatto che questo nostro giovane concittadino è tra i protagonisti della lotta in prima linea al coronavirus in uno dei più importanti presidi ospedalieri italiani; l’ho appreso quasi casualmente anch’io, essendo il fratello Davide un caro amico.
Francesco Ferraro è infermiere presso l’ospedale Bellaria (ai più conosciuto come Istituto delle Scienze Neurologiche) di Bologna, attualmente divenuto ospedale per malattie infettive Covid-19, una struttura svuotata di tutto per accogliere solo i pazienti positivi e fronteggiare dunque l’emergenza sanitaria che stiamo nostro malgrado vivendo. È un giovanissimo professionista ma già in possesso di notevoli competenze, profondamente innamorato del suo lavoro, al quale ho reputato opportuno chiedere una testimonianza; il racconto in trincea che ne è emerso è a dir poco toccante e merita di essere divulgato affinché divenga patrimonio della comunità.
“Malattie infettive G, ciò che resta di un ospedale. Io, infermiere, ed altri 4 colleghi aprimmo il reparto ai primi covid, nessuno ci guidò, la pratica fu maestra e l’accortezza dell’uno per l’altro furono le nostre sole difese, oltre qualche limitato dispositivo di protezione spacciato con ponderazione disumana, per mancanza di risorse. Le giornate trascorrevano lente nell’afflusso di ammalati che si presentavano, ti rendevi conto facilmente quanto misera fosse la condizione umana lontana dallo sfarzo quotidiano dei nostri giorni passati, ormai ricordi lieti di una normalità sempre più desiderata e ai tempi poco considerata. Ora soffriamo tutti dello stesso male che ci allontana fisicamente ma ci unisce più di prima negli affetti. Ci si riscopre più comprensivi verso un collega, più affettuosi verso una collega, più attenti agli altri. Insieme – spiega Francesco – lottiamo ogni giorno in corsia, per chi purtroppo ci ha lasciato e per chi ancora soffre con tenacia, rappezzando spiriti umani allo stremo delle forze. D’un tratto, una linea immaginaria tracciò un confine tra cio che è sporco e ciò che si auspica con fede pulito. Ma questo virus non conosce confini e presto arrivó anche alle persone che mi stavano a fianco a supportare il mio lavoro. Tutto allora si complica, con rammarico profondo ci si sente impotenti, diventi critico e severo verso te stesso, rifletti: “Non ho forse dato il massimo, sono stato poco attento, potevo fare di più?”. Tutti insieme, però, ci si rende conto che si combatte un nemico latente, insidioso, che da tempo nell’indifferenza di tutti minacciava la nostra quotidianità e che dunque proprio come una guerra comporta perdite. Tutto d’un tratto i più deboli, i nostri nonni, i nostri fratelli, lasciano il posto al prossimo sventurato, uscendo di scena coperti solo di lenzuolo bianco. Immaginate quanto questo possa renderli anonimi. Vanno via da soli, spinti da un estraneo che mai gli fu più familiare poiché non c’è un proprio caro che li accompagna, ad essi non è concesso tanto privilegio. Per età o criterio clinico – racconta il giovane infermiere – non gli fu concesso neanche accesso alle cure più intensive della rianimazione, sono anziani, sono gli ormai spacciati. Li vedi dunque abbandonare la postazione di combattimento con dignità, nonostante la nudità della morte. Questo accade nello sgomento e nella frustrazione di tutti che, impotenti, assistono e si rammaricano cercando un senso logico a tanta sofferenza. Uscendo raccolgono il reparto intero che li accompagna nel silenzio. con le lacrime di qualcuno che al momento sostituisce le lacrime dei suoi cari assenti, perché non si dimentichi che questa bestia uccide e si muore da soli. Queste persone furono mariti, zii, fratelli prima di diventare, alla soglia di quel reparto, dei pezzi singoli di un puzzle drammatico, accomunati tutti da una stessa diagnosi: “covid positivo”. Con loro però non c’è moglie, non c’è nipote, non c’è fratello che possa accompagnarli. Nell’uscita finale dal reparto bloccano la frenesia quotidiana, chi in preghiera, chi spreca per essi un pensiero, ci raccolgono tutti noi del personale, anche un istante, quasi ad applaudirli con rispetto. Poi si torna stanchi ma con più rabbia e voglia di fare, di dare, di combattere alle nostre postazioni. Arriva il momento della vestizione e la tanto temuta svestizione, nella quale non ti sei mai sentito più sporco in vita tua. Ti rincuora la tua collega che a fianco e con profondo affetto di solidarietà comune, tipica di chi affronta la stessa sorte, ti segue passso dopo passo nel tanto temuto processo di svestizione affinché tu faccia bene attenzione a non commettere errori. Terminato tutto, se poteste vedere quanta attenzione pose nel guidarti, quanta dedizione impiegò nel redarguirti qualora stessi per commettere una manovra pericolosa, verrebbe anche a voi spontaneo cercare in lei un abbraccio, ma ti ricordi con rammarico che non puoi, non è il momento e non è concesso dalla situazione. Siamo nel tempo in cui gli abbracci sono proibiti, bisogna mantenere le distanze. Un abbraccio adesso può far male e non poco. Così riscopri l’importanza anche di questi piccoli gesti e ti rendi conto quanto impari ad apprezzarli, chiedendoti lecitamente – così termina il ventiseienne nostro concittadino – se avremo ancora voglia di farci dividere da confini ideologici, economici, religiosi o culturali che siano, quando tutto ciò resterà solo un brutto ricordo”.
È una testimonianza destinata a lasciare un nodo in gola a chi la legge, ma certamente preziosa per comprendere fino in fondo la crudeltà di questo insidioso male. Mi si consenta solo una riflessione finale: Francesco Ferraro, figlio di questa comunità, con la sua storia umana e professionale è motivo d’orgoglio non solo per la sua splendida e stimata famiglia, ma per l’intera medesima comunità. A lui, e alle altre migliaia di operatori della sanità italiana impegnati in prima linea, la nostra più sincera gratitudine.
Fabio Pistoia