Il sambuco è da sempre, e da tutte le civiltà, considerato una pianta sacra, probabilmente perché ha grandi proprietà medicamentose, per le bacche e i fiori commestibili e per l’utilizzo del suo legno nella costruzione di strumenti musicali.
Ancor oggi a Corigliano, nei mesi di aprile e di maggio, quando il sambuco è al massimo della fioritura, si usa andar per boschi a raccogliere i candidi fiori per farne squisite pietanze come le frittelle, mescolando le infiorescenze (raccolte il giorno prima, lavate e fatte asciugare per una notte) con una semplice pastella di farina, sale, un uovo, un po’ di acqua e friggendole poi in olio bollente. Ma il cibo più antico che si prepara in Calabria, e quindi anche dalle nostre parti, con i magici fiori di sambuco è “‘u pani ‘e maji” o “pitta ‘e maji” cioè il pane di maggio, a base di farina di semola, ma volendo anche di farina di granturco.
Il nome greco dell’arbusto dalle bianche infiorescenze, diffusissimo negli incontaminati prati e boschi calabresi, è “actè” che significa nutrimento di Demetra, che a sua volta deriva dal sanscrito “acnati” cioè mangiare, mentre “sambykè” era il nome del flauto ricavato da un ramo della pianta. Il nome latino “sambucus” indicava invece, oltre la pianta, anche il piccolo flauto realizzato, allora come adesso, con il ramoscello della pianta privato del midollo.
Fabio Pistoia