Non è bello, e forse finanche avvilente, ridurre le festività natalizie ad un esclusivo fattore estetico e commerciale. Trascurare le sue origini, il suo più vero e autentico significato, ossia quello intimamente religioso, costituisce offesa irreparabile alla storia, alle tradizioni, ai saperi ed ai sapori di un tempo che non è più ma che, tuttavia, continua ad albergare nei cuori di tanti.
È partendo da tale semplice considerazione che reputo opportuno riproporre, in questi giorni di comunione e condivisione di letizia all’insegna degli affetti più cari, uno scritto di Maria Chiaradia, già pubblicato sul periodico “VetaraNova”, che rappresenta uno straordinario spaccato di vita coriglianese nel periodo del Santo Natale. Maria Chiaradia è una donna colta e sensibile, cultrice della scoperta (e riscoperta) della Corigliano di una volta, dei suoi segreti e delle sue usanze; un impegno che questa nostra concittadina porta avanti senza fronzoli e ostentazione, e perciò merita di essere ancor più divulgato e fatto apprezzare.
“La sera del 24 dicembre, con le mappine legate a ttruscia, appese al braccio come panieri, impazienti, ci incontravamo, a ru larghi ‘i zi’ Carmiluccia, a ffrotti di cinque/sei ragazzi, per andare, casa per casa, a ccircare ‘a ninnarella. Questo rito ci dava la libertà di uscire fuori dai confini del nostro vicinato. Perciò ci sentivamo grandi. Se chiudo gli occhi, mi rivedo nel fiume di ragazzi che si snodava nei vicoli stretti del paese, illuminati dalla luce fioca dei lampioni e della luna nel cielo di dicembre. Nell’aria, col freddo chi taĝĝhiava ra faccia, respiravamo il profumo dei cibi, che le donne cucinavano per il cenone di quella sera di festa, che preannunciava la nascita ‘i ru Bbomminielli. Il profumo del cavolfiore e del baccalà fritto, quello forte delle rape con salsiccia e del baccalà con cipolla e pomodoro, la fragranza delle anguille e dd’i cipullizzi cucinate con il pepe rosso, ci avvolgevano di sensazioni. Rivedo, fuori dalle porte socchiuse, i bracieri di rame colmi di carboni ardenti, che sprigionavano stizzi ‘i fuochi. L’odore delle bucce dei mandarini e delle arance, che bruciavano insieme ai carboni, si spargeva nell’aria ed entrava nei nostri cuori di ragazzi ‘i ri vinelli. La ninnarella, era un evento suggestivo, pregno di simboli ancestrali inconsci e misteriosi. Quel rito, ogni anno, creava un’atmosfera di attesa, di emozioni, che riscaldavano l’anima. Nel trucculari alla porta, il cuore batteva forte, mentre trepidanti recitavamo il mantra che conoscevamo da sempre: – Tuppi tuppi! – Chini ghè? – Ninna e nninnarella, n’a runati ‘na cosicella, ppir amuri ‘i ru Bbomminielli? – Trasiti – trasiti. – E cca ti vò stari bbuoni ‘u capi ‘i ra casa! Rumorosi e felici, con il naso rosso e le mani ghiacciate, entravamo in casa per ricevere ‘a cosicella, che riponevamo ‘ntr’i trusci come un bene prezioso. I padroni di casa, non mancavano di chiederci: Quatrari’, chini suti. ‘A cquala razza appartiniti? ‘I qualu vicinanzi viniti? Nel rispondere, ridevamo felici e grati ppi ra cosicella, che avevamo ricevuto. La “cosicella” era ‘nu crustuli, ‘nu piezzi ‘i giurgiulena o ‘i pasta cumpetta, ruva lupinelli, ruva fichi alici, ‘nu pezzarielli ‘i filari ‘i castagni ‘mpurnati, ‘nu pumicielli rumanielli, ruva nuci. Se capitavamo in una famiglia, dove il marito era tornato ‘i ra Germania ppi ppassari ‘u santi Natali a ra casa ssua, allora potevamo anche avere dei cioccolatini o delle caramelle a mmenta vušchenta cumi ‘nu cancarielli. Nelle case ‘i ri jardinari, invece, ricevevamo mandarini, arance, piretti, granati e ‘nu cacchimi. Al momento di andare via, era d’obbligo ripetere bboni festi cuntenti e rinnovare l’augurio per il capofamiglia: ppi ccent’anni vi vò stari bbuoni ‘u capi ‘i ra casa. Altra storia, quando, dopo aver trucculati e formulato il mantra, la risposta era negativa: jativinni, ami ggià rati oppure jativinni, avimi pacia. Allora, mortificati e indispettiti, rispondevamo: e cca ti vò ccariri ‘u càntiri ‘mmienzi ‘a casa. Più veloci del vento, scappavamo, mentre dalla finestra la padrona di casa urlava: risgraziati, scustumati, facci tuosti e ffacci ‘i muri, si v’anĝhiappi, vi cci puorti a ccauci a ra casa ‘i ri mammi bboštri, c’un bb’ani ‘mparati ‘a bbona crianza. A fine serata, finito il percorso stabilito, ccu ri trusci traboccanti, ci avviavamo verso casa, soddisfatti e affamati”.
Fabio Pistoia