Laghi di Sibari, 1970.
Gli enormi mostri meccanici che durante il giorno avevano scavato rumorosamente senza soste, la notte riposavano. Ormai si era perso il conto delle migliaia e migliaia di tonnellate di terra movimentate e rimosse. I titanici lavori non erano stati senza imprevisti e qualcuna di quelle immense draghe era dovuta soccombere: i botti si erano sentiti a svariati chilometri di distanza, opera dell’altro mostro, quello invincibile, la cui avidità fu saziata con valigie piene di contanti, contributo obbligatorio per far tornare la pace. Ma con o senza la ’ndrangheta, ai più, era sembrata una battaglia persa in partenza, con la natura come favorita. Invece la fisionomia delle quattro penisole era ormai delineata e le porte vinciane, una volta aperte, avrebbero fatto entrare il mare dove prima c’era la palude e consentito alle imbarcazioni turistiche di entrare e uscire, magari anche ai motopescherecci.
Giorgio, Davide e Saverio, con le loro biciclettine, ogni sera si ritrovavano alla rotonda d’accesso, pronti a partire per i loro consueti giri di esplorazione. All’inizio dei lavori, non riuscivano a capire il senso di quell’enorme rimozione di terra che, nel giro di qualche giorno, aveva dato vita a quattro enormi buche. Ma una mattina, il coupe de théâtre: le ritrovarono piene d’acqua! Era straordinario: il mare era entrato nell’entroterra, l’acqua, confluendo da un piccolo e provvidenziale canale, aveva riempito le grandi fosse.
Sembrava un’azione contro natura: portare l’acqua dove prima c’era la terraferma. D’accordo la bonifica, ma che senso aveva tutto ciò? Si chiedevano i ragazzi che non capivano bene lo scopo di quegli interventi tesi a modificare così nel profondo lo stato di quei luoghi. In quel periodo, gli era capitato di ascoltare lo scetticismo di alcuni anziani che, con acuta ironia e una buona dose di fantasia, discettavano sui prossimi interventi: un’inversione a trecentosessanta gradi del Crati per riportare le sue acque luride a Cosenza; il piallamento delle cime del Pollino, si sa, un altopiano può far sempre comodo!
La domenica, come in tutti i giorni festivi, alle esplorazioni notturne si aggiungevano quelle diurne. Quella mattina, i ragazzi trovarono tanta gente mai vista prima, donne e uomini eleganti, alcuni dei quali con lafascia tricolore. Automobili di grossa cilindrata con targhe sconosciute erano parcheggiate lungo la strada e c’era addirittura la banda musicale. Su un piccolo e improvvisato palco, un signore con uno spiccato accento veneto, dopo un breve discorso, scoprì un plastico,suscitando la meraviglia dei presenti: nelle quattro fosse (ormai diventate quattro darsene), si vedevano i modellini di una serie di barche attraccate ai pontili, ognuno dei quali aveva di fronte a sé una casa di mattoncini Lego. Ebbene sì, migliaia di case avrebbero avuto un proprio posto barca, una vera chicca!
Il turismo dei ricchi, il progresso e il benessere sarebbero approdati dove, fino a poco tempo prima, c’erano stati palude, malaria e disoccupazione. I relatori più fantasiosi si sbilanciarono utilizzando parole più che suggestive, azzardando per quel nuovo centro turistico paragoni del tipo “una piccola Venezia” o definizioni come “il più grande porto turistico del Mediterraneo”.
Nei giorni successivi, i primi cantieri fecero capolino.Un tourbillon di uomini e mezzi realizzarono nuove strade e piantarono una moltitudine di alberi: eucalipti, salici, pini, oleandri, bouganville e chilometri e chilometri di siepi di pitosforo. I metodi di costruzione erano innovativi: per edificare le fondazioni e contenere l’invasività dell’acqua fu utilizzata una grossa macchina che conficcò nel terreno pali di cemento appuntiti, sui quali vennero posati i solai, che facevano da base ai pianoterra.
I tre amici, giorno dopo giorno, si appassionarono ai lavori edili, di cui conoscevano in ogni momento, quasi come dei geometri, lo stato di avanzamento.
In una fresca serata di maggio, quando ormai era stata completata una schiera di trenta ville che davano sulle darsene e, dalla parte opposta, proprio di fronte, sul lato di levante, altre trenta, durante una delle consuete perimetrazioni ciclistiche delle penisole con l’aria resa ancor più fresca dalla pur lieve velocità delle bici e mitigata dai pulloverini e giubbini indossati,all’improvviso, un leggerissimo moto ondoso scosse la quiete della prima darsena, quella all’ingresso.
Un motopeschereccio con i motori al minimo approdò a pochi metri dal mucchio di sabbia dove i ragazzi si affrettarono a nascondersi.
In contemporanea, via terra arrivò un piccolo camioncino; dal peschereccio scese un uomo mentre un altro, frettolosamente, da bordo, si mise a passare delle grosse scatole di cartone che venivano trasbordate nell’automezzo. I ragazzi, nascosti dietro il cumulo di sabbia, guardarono tutta la scena impauriti e ammutoliti.Si chiesero cosa mai potessero contenere quelle grosse scatole leggere sulle quali apparivano delle scritte che non riuscivano a leggere.
Qualche minuto dopo, a Saverio, che quella sera senza giubbino, scappò un sonoro starnuto. Gli uomini simisero in allerta e i ragazzi, immobilizzati dal terrore,non si mossero, Di sott’occhi, notarono che l’uomo sul peschereccio impugnava una pistola.
Ad un tratto, al loro indirizzo urlò:
«Savè, vist ca si cà, vieni aiuta ’a patrita a scaricari!»*.
(*Saverio, visto che sei qui, vieni ad aiutare tuo padre a scaricare!)
Saverio, senza fiatare, si alzò dal suo nascondiglio di sabbia e si diresse verso il peschereccio per aiutare il genitore a scaricare le sigarette di contrabbando. Fu il suo battesimo nel malaffare.
Giorgio e Davide, allora, velocemente alzarono le loro biciclette da terra e, una volta saliti sopra, pedalarono come forsennati verso le loro case.