Oggi,invece,puoi addirittura mangiare …gnocchi,senza alcun senso di colpa.(pubblicato sul quotidiano “il Giornale” del 22 ottobre 2018).
Era il 1945.Frequentavo la seconda media.Un bel giorno,uscito da scuola,trovo mia madre molto contrariata e preoccupata, per la presenza di tre individui,in borghese,che ci stavano perquisendo la casa in cerca di risorse alimentari sottratte al conferimento,obbligatorio,all’Ammasso.Appartenevano al corpo di vigilanza dell’UPSEA,così mi pare si chiamasse l’Organo addetto alla repressione del mercato nero dei prodotti alimentari, che nemmeno nel rigore del periodo fascista.
Si capiva che erano elementi raffazzonati nella foga populista di “punire gli affamatori del popolo”.Facevano la faccia feroce, e ognuno si sforzava di apparire Marat o Robespierre,pronto a far “scattare la ghigliottina”.Erano le avanguardie rampanti del comunismo,pronte a prendere il potere appena finito il conflitto. Mio padre,come sempre,era al lavoro sull’autolinea Corigliano- Cosenza ed io,mio fratello e mia sorella demmo conforto alla mamma che,comunque,era in apprensione.E lo credo bene.
Dietro un grosso,buffet,non addossato,alla parete,ma piazzato obliquamente alle pareti d’angolo,mio padre,produttore di olio d’oliva,aveva nascosto,adagiato su una robusta cassa di legno, un fusto da 200 litri di olio da dover spartire con gli altri due soci frantoiani (oggi sarebbe considerato il consumo medio di una famiglia meridionale di cinque persone,qual era la mia,allora. Quando il più zelante di quei “ghepeù” si chinò per guardare sotto il buffet,a mia madre quasi veniva un colpo,ma lo zelante “guardiano della rivoluzione ”non si chiese nemmeno il perché di una cassa di legno da imballaggio dietro un buffet.
Trovarono,in cucina,un sacchetto con circa 15 kg di farina,che era quella avanzata dall’ultima infornata del pane che mia madre, di solito,confezionava in casa.E verbalizzarono ponendolo sotto sequestro e affidato in custodia …a mia madre.
Ma,sicuramente,restarono scornati per la cattiva informazione che qualche zelante spia,informatore molto male-informato, aveva loro fornito.Probabilmente cercavano tonnellate di olio in un garage di cui mio padre aveva la chiave che consegnò,al rientro da Cosenza,favorendo l’ispezione.Insomma un “flop”.
Alla prima occasione mio padre raccontò l’accaduto all’avvocato Attanasio,suo legale di fiducia,che volle vedere il “corpo del reato”, dopo di che,rivolto a mia madre,le raccomandò di utilizzare,in ogni caso,quella farina e,di mettere,in quel sacco,cascami di farina, crusca e,al limite,anche spazzatura,sostenendo,un domani,a conclusione della vicenda,che quello era il contenuto verbalizzato, chiaramente destinato a“mangime per i polli”.Genio d’un Attanasio. E mia madre,ubbidì,e…”li mise nel sacco”.
Conclusione: Nessuno si fece mai vivo per requisire quel sacco. E mai mio padre ricevette avvisi di procedimento penale,per quel “reato”.E lo credo bene.Dopo pochissimo,tempo la guerra era finita, il “comunismo” degli arrabbiati non aveva trionfato e la vita ricominciò come una volta,quando farsi il pane in casa…non era un reato.
Ma questi custodi della “salute pubblica” mica sparirono,di colpo. Il PCI,dopo la delusione della mancata vittoria elettorale del 1948, Nel breve interregno,aveva provveduto ad imboscarli in posticini sicuri ed irremovibili (in attesa di…tempi migliori). E intanto passano gli anni.Ed io,giunto alla quarantina,con grande “disperazione” dei miei genitori,non accennavo a prender moglie. Ed i miei,poverini,non mancavano di raccomandare agli amici più stretti,di convincermi a compiere il passo.
Eppure ero,come suol dirsi,un “buon partito”.Economicamente ben piazzato per una già lunga,avviata e soddisfacente attività professionale.Alto,bella presenza,naso pronunciato che,poi,era indice di virilità (i latini,intenditori,dicevano:“si vis cognoscere virum,aspice nasum”,che faceva la pariglia con un saggio proverbio “friulano”,almeno da come mi andava ripetendo,ai bei tempi dell’amata mia Trieste,l’indimenticabile procace Mariarosa: “Pasta e fasioi,ma un bon mari’ sotto i lenzioi”.
E,spesso,gli amici più intimi,tentavano il trabocchetto per farmi conoscere,inconsapevolmente,qualche candidata “in pectore”. Tonino Verre,il compianto e caro collega Tonino,con cui,spesso, mi recavo a Roma,al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici per l’approvazione di progetti di elevato impegno economico,ci provò. Mi disse:”Ho degli amici cosentini a Roma,che mi hanno invitato a cena e,quando ho precisato che ero con un collega,hanno insistito estendendo l’invito anche a te”. La cosa mi sembrò normale ed accettai.
Dopo i convenevoli di rito e le presentazioni,ci sedemmo a tavola. Marito,moglie,figlio e figlia e,beninteso,noi due. Intanto io,già agli antipasti,fui colto da un dubbio: “ma a me pare di conoscere quest’uomo”.E mentre mi arrovellavo,quando arrivammo agli gnocchi,lui raccontò delle sue esperienze lavorative di fine guerra nella repressione del mercato nero.Non ebbi più dubbi,era proprio lui,il capo della squadra investigativa che aveva terrorizzato mia madre.E la certezza la raggiunsi quando feci caso che il suo accento era tipico degli arbëresh,particolare che mia madre mi ripeteva sempre :“il più cattivo era il piccolino,quello con l’accento albanese”.Probabilmente,ora,era ormai imboscato come usciere in qualche ministero.
Cercò di partecipare al discorso anche la figlia.Bionda ossigenata, con piccoli residui non raggiunti dall’ossigenazione che tradivano la sua originale appartenenza alle brune.
Volendo fare sfoggio di un certo livello culturale,affrontò persino il discorso sull’arte “impressionista” citando “Manette” e “Monette”, pronunciati esattamente “manette” e “monette”,mentre i genitori annuivano compiaciuti.
All’uscita,Tonino mi chiese:”che te ne pare di questa ragazza ? “ Ed io,consapevole del tentato agguato : chi,”manette”,”monette”? Esplodemmo entrambi in una gustosissima e fragorosa risata. Spero tanto che quell’uomo ci sia rimasto proprio assai male per il mancato seguito di quella vicenda,dalla quale,presumo,si aspettasse un felice epilogo.
E spero,ancor di più,che avesse indagato sulle mie generalità fino a collegarle all’incursione a casa mia in quel lontano 1945. È proprio vero,”LA VENDETTA È UNA PIETANZA CHE VA SERVITA FREDDA”,così come vuole un antico proverbio cinese.
Ernesto SCURA