La mia città,Corigliano Calabro,ora fusa con Rossano,supera la consderevole cifra di 80.000 abitanti. Nel 1943 si aggirava intorno i 20.000 abitanti,dediti,in grande maggioranza,alla coltivazione dell’ulivo da cui prende il nome (dal greco choros=città e elaion=olio). A questa coltura si aggiungeva la coltivazione del grano nella fertilissima Piana di Sibari.
Tutto contribuiva ad alleviare,durante la guerra,il tormento della carestia di generi alimentari,di cui,bene o male,godevano un po’ tutti,poveri e benestanti,per via dell’abbondante produzione dei due generi più importanti dell’alimentazione meridionale che, bene o male,permeando dalle strette maglie dell’ammasso,dava un qualche sollievo alla popolazione.
Un mio zio gestiva un frantoio oleario ai margini del Coriglianeto, il torrente che bagna,si fa per dire,Corigliano,visto che l’acqua vi scorre solo nei mesi invernali.
Quel frantoio,da tempo abbandonato,in quanto privo di energia elettrica,funzionava con l’energia prodotta da una enorme ruota di ferro,mossa dall’acqua del torrente che,opportunamente,a sua volta canalizzata,muoveva le pesanti ruote di pietra della molazza. E si rivelò prezioso,in quel particolare momento in cui l’energia elettrica era soggetta a continue interruzioni che danneggiavano la regolarità della lavorazione con ritardi che si percuotevano anche sulla qualità dell’olio.
Ma l’energia idraulica fornita dal torrente si fermava alla molitura delle olive,mentre la spremitura,che è l’operazione più importante, era affidata ad una pompa idraulica manovrata da quattro uomini che dovevano sollevare ed abbassare,con sforzo sovrumano,una leva premente per dare pressione ad una rudimentale pressa.
E lascio immaginare la resa in olio ricavato con questa primordiale operazione,olio che,in buone parte,restava ancore nelle sanse. Ma tutto sommato,ancora ancora andava bene così.
Il complesso dell’immobile,molto,antico,era di una bellezza che affascinava noi bambini,per i molti vani distribuiti al piano terra, in gran parte inutilizzati,comodo e provvidenziale rifugio dei nostri giochi,e per i vani al primo piano,che erano,a suo tempo,l’alloggio della dirigenza,dove si era insediato mio zio.
Ricordo un particolare:nel bagno,il sedile ed il coperchio del vaso erano,in cuoio “antico”(stagionato) e,tutte le volte che ce ne servivamo,indugiavamo a lungo,su quel,sedile,quasi per cogliere, fino in fondo,la carezza che ci elargiva quel manufatto uscito dalle mani ingegnose di qualche sellaio (i sellai erano gli esperti artigiani che costruivano le selle dei cavalli,tutte in cuoio,con gli accorgimenti anatomici più consoni alla postura del …cavaliere. Ma un bel giorno,in una delle tante visite al frantoio,avemmo la sorpresa di non trovare più,sul vaso,nè il sedile nè il coperchio. E non fu nemmeno necessario,chiedere allo zio che fine avesse fatto,il sedile.
Bastava guardare i suoi stivali,risuolati e rimessi a nuovo. E,sebbene a malincuore,dovetti convenire che lo zio,data la carenza assoluta di cuoio che faceva disperare calzolai e utenti, aveva evitato di andare in giro con le suole perforate fino a mettere a nudo i calzini.
Questa era la situazione nel Gennaio,del 1943. Oggi,a distanza di 75 anni,quel complesso è irriconoscibile. Tutto è stato trasformato,e adattato,a Ristorante-Albergo. Persino nel nome non ricorda nulla del vecchio frantoio,avendo assunto,molto,impropriamente il nome di “Mulino”,laddove mulino non fu mai.
Della ruota idraulica e del canale di adduzione dell’acqua nemmeno il ricordo,però,e la cosa è veramente interessante,scavando nel sottosuolo del piano terra,sono,venuti fuori vani e manufatti in mattoni degni della massima attenzione,almeno per accertare a cosa servissero,probabilmente sempre collegati ad una remota funzione di quel frantoio,ma in epoca più remota..
Per fortuna tutto il reperto ipogèo è stato conservato e messo in evidenza,dalla attuale proprietà,con diligente encomiabile cura. Ripeto,encomiabile,salvo l’innaturale denominazione di …”mulino”.
Ernesto SCURA