Ricordando zia Maria Scorzafave, voglio riportare un racconto del 1° volume de “Le Botteghe di una volta” di Corigliano Calabro, dedicato al marito, zio Ciccio Longo.
Uno dei più importanti negozi di tessuti della mia città negli anni ’40 e ’50 fu quello in via XXIV Maggio n. 3, gestito dai fratelli Antonio e Francesco Longo. Dopo la morte di Antonio, avvenuta a metà degli anni ’50, fino al 1992 fu gestito solo da Francesco, e dal 1992 fino al 2004 da Carmela Longo, figlia di Francesco.
È doveroso da parte mia ricordare brevemente la grande figura di Francesco Longo, zio Ciccio, perché aveva sposato una sorella di mio padre, zia Maria Scorzafave.
Nato a Corigliano Calabro il 26-7-1918, deceduto il 21-8-1992, iniziò a lavorare giovanissimo. Ad appena 13 anni, lavorò con un suo zio, Alfonso Longo, titolare di un negozio di tessuti, nei pressi del Ponte Canale, ’i supra l’Archi(palazzo Longo). Poi, per un certo periodo, fu rappresentante di alcune note marche di tessuti, per aprire in seguito, come già detto, col fratello Antonio, il negozio di tessuti in via XXIV Maggio n. 3.
Così nel 1947 scriveva il quindicinale, diretto da Italio Dragosei, Il Popolano:
“… ho notato, qualche giorno fa, la magnifica trasformazione del negozio di tessuti della ditta Francesco Longo che oggi può dirsi davvero un bel negozio, provvisto di elegante vetrina da esposizione e riccamente illuminato. Le mercanzie sono distribuite armonicamente in lucidi ed
uniformi scaffali che, allineandosi con garbo lungo le pareti dell’ampio locale, conferiscono al negozio un attraente aspetto d’insieme che contribuisce molto al suo accorsamento”.
Una bella descrizione questa de Il Popolano, perché evidenziava le capacità di aggiornamento e il modo di porsi al pubblico di mio zio Ciccio.
Concessionario della distribuzione del famoso cappello Borsalinoe di alcuni tessuti speciali a metraggio, era famoso anche per la vendita di alcuni particolari ed elegantissimi ombrelli, dai mille colori, per donne. Poi nel suo negozio c’era un buon assortimento di prodotti di merceria: cerniere, filati di cotone per cucito e ricamo, scampoli di seta pura, nastri di raso, pizzi raffinati Sangallo, merletti. Il marchio più richiesto del filato, in gomitoli, era quello delle lane Borgosesia.Un filato molto morbido, adatto anche alla lavorazione di copertine, mantelle, maglie, sciarpe, cappelli, golfini, maglioni… Non mancavano neanche alcuni prodotti in pelle: borse, portafogli, cinture, ed elegantissime valigie. Conservo ancora la valigia che mi regalò, nel lontano 1970, quando partii per l’Università. La conservo, come oggetto prezioso, per ricordare una persona cara, uno zio buono e generoso.
Come ricordava anche Il Popolano, riusciva sempre, e specialmente nel periodo natalizio, ad allestire una delle vetrine più belle della città.
Bellissimi erano i presepi che, con fantasia, estro e creatività, facevano da cornice all’esposizione dei tessuti nella vetrina. Erano presepi artigianali costruiti da lui a mano, con materiali di recupero, alla maniera di una volta, e per questo spesso veniva premiato per la vetrina più bella della città.
Ho avuto la grande fortuna, appena undicenne, di frequentare il suo negozio, come garzone di bottega. Niente di particolare. Qualche raccomandata alle Poste, a ra Gghjiazza, ogni giorno a casa sua per consegnare la cosiddetta spesa, a sistemare la merce leggera. Insieme a me, come garzone di bottega, c’era anche un altro ragazzo, che io simpaticamente chiamavo Cerasella.
Il negozio di zio Ciccioper me e per questo mio amichetto diventava, qualche volta, un luogo di giochi. Sì, proprio così. Io e Cerasella,all’arrivo dei cappelli Borsalino,aspettavamo con frenesia la sistemazione nelle vetrine di questi, per recuperare gli scatoloni vuoti per i nostri giochi. Così, pure per la vendita dell’ultimo scampo di una pezza di tessuto, per recuperare quella piccola struttura in legno, a forma di una scaletta rettangolare, che era servita per avvolgerci attorno lo stesso tessuto. Ci costruivamo un piccolo spazio del negozio con la nostra capanna di cartone, le scalette in legno e altre cosine che la nostra fantasia ci suggeriva. Naturalmente ci si divertiva tanto e… a costo zero. Solo qualche inusuale e affettuoso rimprovero da parte ’i zu Ciccillo.
In questo negozio, frequentato da una clientela raffinata, ho imparato tante cose importanti. Avevo imparato perfino il concetto della codificazione dei prezzi. Mio zio scriveva, per regolarsi sull’eventuale guadagno, sul retro dell’etichetta della merce il relativo prezzo di acquisto, utilizzando una scrittura alfanumerica, una sequenza di lettere e di numeri, che solo lui riusciva a decodificare, perché inventata, appunto, da lui. Col tempo, preso dalla curiosità e da un po’ di intuito, l’avevo capita. La lettera “m” stava per il numero “1.000”, la “i” per “1”, la “t” per “3”, la “o” per “0”, e così via. Mi ricordo che un giorno, quando gli dissi, ingenuamente, di aver capito come si decodificavano quelle scritture, si arrabbiò molto, dicendomi con un tono risoluto di non svelare mai ad alcuno il segreto. Io capii l’importanza della cosa e naturalmente ubbidii.
In quegli anni, parlo sempre dei primissimi anni ’60, i prezzi della merce non erano imposti. Cioè, mi sembra che allora non c’era l’obbligo di metterli in evidenza sulle etichette, oppure, se c’era, non si mettevano, come del resto si fa, spesso, ancora oggi, dopo più di mezzo secolo. In ogni caso, la contrattazione dell’affaretra il commerciante ed il cliente spesso
diventava una commedia teatrale, a più atti.
Mio zio, quasi sempre, faceva precedere la vendita della merce con le seguenti frase: ti fazzi ’nu priezzi ’i favori…, tu ruogni a priezzi ’i costi…, a ttija…, picchì su tu…,espressioni dialettali per rendere quasi familiare il momento dell’acquisto della merce. Io curioso, in un angolino, assistevo a questa disputa tra le due parti.
Mio zio da un lato, e il cliente dall’altro. Mi divertivo tanto, perché già conoscevo il risultato. Quasi sempre aveva la meglio mio zio. Quando il cliente, non convinto e testardo, stava per andarsene, mio zio lo rincorreva fino alla porta d’uscita del suo negozio per persuaderlo, e con la solita pacca sulle spalle, se si trattava di uomini, riusciva a convincerlo.
Erano altri tempi. Migliori? Per alcuni aspetti, certamente sì, per altri, invece, avrei qualche dubbio. Allora una cosa era certa: il Rispetto. Il rispetto inteso nella sua accezione non formale. Ma questa è un’altra storia.