KLEB in russo,come in tutte le lingue slave,vuol dire PANE.Siccome tutti i paesi dell’est Europa erano,oltre che slavi,sottoposti a rigido regime comunista,su modello sovietico,non dovete più di tanto meravigliarvi se nella prima foto compare una lunga fila in attesa di acquistare il pane.Era quello il modello (la salsa),comune a tutti i paesi comunisti.
Ma nella seconda foto,uomini,donne,vecchi e bambini,in fila…chilometrica,escludendo il pane,ci fanno pensare a qualche eccezionalità.Ma quale? Ma le “salse” sono tante che non lo sapremo mai.
Ad onor del vero,questa pagina avrebbe dovuto essere bianca,dato che nelle mie peregrinazioni nei tanti paesi comunisti d’Europa,non ho potuto mai includere l’UNIONE SOVIETICA. Direte: e allora,che c…. scrivi a fare?
Allora cerchiamo di procedere cronologicamente per poter motivare il mio interesse a quella realtà sociale di cui tanto si vantavano i comunisti nostrani.
Ero a Trieste,nei primi anni 60,studente universitario, quando il partito liberale,in occasione di una campagna elettorale,parcheggiò,sul lungomare,un camper adibito a mostra itinerante ed esposizione di alcuni prodotti di fabbricazione sovietica. Era roba acquistata nei magazzini GUM di Mosca, e corredata del cartellino originario,col,prezzo in rubli.
Esempi:
-Un paio di scarpe da uomo,nere,che da noi neanche ai morti.Unica aggiunta,un cartello,molto vistoso,c riportava il salario medio di un operaio sovietico,e quindi,il valore rapportato a quel salario. Per l’acquisto di quelle scarpe (ma che scarpe) occorreva l’equivalente di due stipendi.
-Per un cappotto,di orribile confezione,di stoffa molto scadente,e rustica,occorrevano sei salari.
-Per una orribile camicia colorata,mezzo stipendio.
E via abbigliando e via calzando ed ammobiliando (il divano-letto era il mobile piu diffuso perchè,nei pochissimi metri quadrati di appartamento assolveva al duplice ruolo,economizzando mq e mobili.Ma quel che risparmiavi in mq non compensava ciò che spendevi in più per quel mobile).
Stranamente il PCI triestino ignoró tutto,senza reagire. E non mi risulta che l’abbia smentito il PCI nazionale. Ma molto più stranamente,e la cosa mi ha fatto quasi imbestialire,fu che la DC non ne approfittò,anzi coprì il tutto con un “assordante” e “compiacente” silenzio.
Passati gli anni e,raggiunta una certa indipendenza economica,accarezzai l’idea di visitare la patria naturale del comunismo mondiale,di cui si riempivano la bocca i comunisti nostrani quando volevano indicare il paradiso delle realizzazioni sociali contrapposte al misero “tenore di vita” dei nostri metalmeccanici,e dei poveri impiegati statali italiani che facevano la fame,e delle ristrettezze economiche dei “miseri” pastori sardi,e dei “disperati” braccianti calabresi.(E “ladri di biciclette”furoreggiava nelle sale cinematografiche di Mosca e Leningrado per convincere i russi che in Italia si stava peggio.)
Mi misi in contatto telefonico con il Consolato della Unione Sovietica di Roma:
-Alò,Consolato russo?
-P_R_E_G_O, C_O_N_S_O_L_A_T_O S_O_V_I_E_T_I_C_O!
Capii subito l’antifona,bisognava procedere con i piedi di piombo,poichè quelli non indulgevano a divagazioni o imprecisioni.
Dissi che avevo intenzione di visitare l’Unione Sovietica, in macchina,escludendo i gruppi organizzati (era l’unico modo gradito ai sovietici,poichè affidavano il gruppo ad una “guida” che,dopo l’arrivo in aeroporto,conduceva il gruppo,in autobus,solo nei posti programmati (e non poteva mancare il mausoleo,di Lenin) evitando,il più possibile,il contatto col popolo.
Quindi Musei,Fabbriche,Kolkhoz,Dighe,Centrali Elettriche, Canali Navigabili,evitando accuratamente di far assistere alla formazione di una fila per l’acquisto del pane,del latte. delle frittelle…
Mi spiegarono che le formalità le avrei dovuto sbrigare con l’Associazione Italia – Unione Sovietica di cui mi fornirono il numero di telefono.
Contattai l’Associazione e da come mi risposero capii che avrei dovuto rinunciare al sogno di visitare l’URSS con la mia macchina.
Avrei dovuto dichiarare la frontiera d’ingresso,precisando la data e la meta da raggiungere (per esempio Mosca o Leningrado o…).
Loro mi avrebbero assegnato un percorso obbligato da cui non mi sarei dovuto discostare “per nessun motivo” e,comunque,dovevo dichiarare,in anticipo,le tappe ed i pernottamenti,avendo già provveduto a prenotare gli alberghi,lungo il percorso,che avrei dovuto raggiungere, entro la mezzanotte del giorno previsto.
Nel caso mi fossi discostato dal rigido programma,sarebbe scattata la messa in allarme da parte della polizia che non indulgeva su ritardi o contrattempi che,nel caso,dovevano, con urgenza,essere notificati alle polizie locali.
Capii che non avrei avuto modo nemmeno di soddisfare la mia insaziabile curiosità scambiando due parole con operai, contadini,o laureati.
Poi raccolsi notizie più dettagliate da quelli che si erano già sobbarcati ad una tale avventura.
Mi raccontarono che alla frontiera subirono il rovistamento della macchina arrivando,addirittura,a smontare i pannelli interni degli sportelli,alla ricerca di chissà che cosa.
Ma le notizie più attendibili le ottenni da un camionista ungherese che faceva la spola tra Romania e URSS. Lui non aveva problemi di alcun genere perchè era sempre fornito di “palinka”,un distillato di uva a forte gradazione che gli…”apriva” tutte le porte o,per meglio dire,faceva ‘chiudere” gli occhi al mliziano di turno, quando occorreva “far ignorare”un traffico di merce “proibita”.
Mi raccontò di alcuni italiani che erano giunti alla frontiera sovietica animati da spirito di “fratellanza”. Dovettero assoggettersi all’ascolto di tutti i nastri di cui erano in possesso,con le canzoni incise,uno per uno,perchè bisognava accertarsi che non vi fosse contenuta propaganda antisovietica.
E facendolo,riuscirono a provocare le lacrime di quei malcapitati che,forse,in Italia,fino ad allora,avevano, probabilmente,sempre votato PCI.
Altri italiani mi illustrarono le modalità del viaggio,e non seppi trattenere un moto di rabbia frammisto ad ilarità. Un punto di rifornimento,che da noi si usa denominare STAZIONE DI SERVIZIO,lì consisteva in una colonnina per la benzina ed una per il gasolio.Chiesero dov’erano i bagni. Gli fu indicato,ai margini di un campo di mais,una baracca in legno,malmessa.
Ad una parete tanti orinatoi,con l’urina che dilavava sul battuto di cemento fino all’uscio.
Addossata alla parete di fronte,una lunga batteria di cessi ricavata da un’unica asse di legno con tanti fori circolari,il tutto a mo’di lungo sedile dove i malcapitati viaggiatori potevano sedere e soddisfare i loro bisogni corporali,magari potendo scambiare due parole con il vicino di …buco.
Probabilmente,nello,spirito della cooperazione sociale,si favoriva il “collettivismo” spinto fino alle più intime funzioni. (Nel caso specifico la cooperazione degli sforzi dei singoli, per giungere all’unico obiettivo finale:”lo stronzo di Stato”.
Ditemi voi,vi prego,se ho fatto bene a rinunciare alla visita di quel “Paradiso” dove,peraltro,i viaggiatori,su quelle strade,non crediate che fossero agenti di commercio,o tecnici in trasferta,o cittadini che si recavano in vacanza con la propria auto (bene rarissimo).
I fruitori di quei buchi,in massima parte,erano autisti di camion addetti al trasporto di merci. Qualcuno non crederà a ciò che scrivo. Ed è libero di farlo.E ci mancherebbe. Ma lasci,almeno,che ci creda io.
Però aggiungo che queste notizie non sono di un’unica fonte,ma sono state da me verificate,e controllate,e confrontate,e comparate scrupolosamente con altre, attinte,sempre,da persone molto per bene.
Ed ora vi racconto la storia più interessante che mi è stata raccontata da una di quelle persone “per bene”: Mio suocero,IMRE NAGY.Cittadino ungherese,ora alla bella età di novantacinque anni.
Nel 1945 vestiva la divisa di soldato ungherese, combattente contro l’Armata Rossa.
Venne fatto prigioniero dai sovietici,in Austria,a guerra ormai finita e,quindi,era presumibile che,dopo le formalità di rito,sarebbe stato rimpatriato nella vicina Ungheria.
E visse di questa illusione fino,al,giorno in cui i sovietici lo fecero salire con altri soldati ungheresi su un treno diretto in Ungheria.
Quando arrivarono alla sua città,Nagy Varad,il treno non accennò nemmeno a rallentare,ma proseguì la sua corsa fino al porto di Costanza,in Romania,da cui furono subito imbarcati per Odessa,in Crimea e,quindi,mandati in un campo di lavoro,a scavare in una miniera,nel sottosuolo. E vissero di stenti,scarsamente alimentati e cenciosi,fino a quando una frana non lo imprigionò nella miniera per 24 ore,con l’acqua fino alla gola.
Lo salvarono per miracolo.E fu l’unica volta che gli fecero bere un bicchierino di vodka.
Ricoverato in ospedale,fece colpo su una dottoressa (e lo credo bene,bel ragazzo qual era…a 23 anni) e nacque,tra lui e la dottoressa,del tenero,all’insaputa del compagno Stalin. E la dottoressa gli suggerì di chiedere di essere trasferito in una azienda agricola perchè era molto bravo ad accudire ai cavalli (e se no che ungherese era?).
Lei avrebbe provveduto a fare un referto in cui dichiarava che il suo fisico non era adatto al lavoro in miniera. E sopravvisse.Per ben cinque lunghi anni,sopravvisse. In superficie rimediava,sempre,qualche erba commestibile, o qualche radice,o un ghiro,o una talpa da cuocere alla meno,peggio.
Ma quel che più conta,pagò al “compagno” Stalin il grosso tributo di cinque anni di lavoro forzato,in spregio ad ogni più elementare norma della Convenzione di Ginevra,che regola il trattamento dei prigionieri di Guerra. Ma ciò che più fa rabbia è che la guerra era già finita quando fu fatto prigioniero.
Ed Imre sopravvisse,anche per raccontare i maltrattamenti e gli abusi subiti,allo scrivente,in quel,tempo,adolescente. E se,dopo questo racconto,ci dovesse essere qualcuno che,ancora,si ostinasse a non crederci,beh,sono c…. suoi.
Ma sappia che,oggi,Imre,gode di due pensioni. Una relativa al lavoro svolto nella sua vita civile. Un’altra dovuta ai suoi cinque anni di prigionia,erogata con lo specifico riferimento,dal governo ungherese,per ripagare chi subì qell’anomala prigionia.
ECCO,QUESTO FU IL COMUNISMO IN SALSA SOVIETICA.
E c’è ancora chi sogna quel modo e quel mondo,e quegli uomini d’acciaio (Stalin in russo significa acciaio) e quelle fedi incrollabili e ferree.
MA CHE VADANO TUTTI A FARSI …FONDERE ! (s’intende, beninteso,in siderurgia).
Ernesto SCURA