Nei primi anni sessanta,studente d’ingegneria a Trieste,alloggiavo presso una famiglia,che mi aveva messo a disposizione una stanza. La mamma era una donna dolcissima che,benchè estraneo,mi faceva sentire completamente a mio agio. Il figlio,operaio dei cantieri navali di Muggia,nelle sere invernali,mentre sorseggiavamo un grappino,volentieri si lasciava andare a raccontare episodi del periodo di guerra,che io trovavo oltremodo interessanti poichè riferiti al periodo della Repubblica Sociale,nelle cui file era inquadrato.
Raccontò di quando,ai primi del 1945,fu catturato, sul fronte della “linea gotica”,dagli americani. Probabilmente fu per lui la carta più fortunata che si giocò in quel convulso momento storico,evitando la cattura da parte di “rabbiosi” partigiani,in quel tragico successivo aprile del ’45. Una volta prigioniero,fu trattato con tutti i riguardi dovuti ad un prigioniero di guerra,per come stabilito dalla ConvenzIone Ginevra.Quando lo fecero salire su un carro merci di un treno diretto al Sud,insieme con altri commilitoni,capì,da quanto si mormorava, che sarebbero stati avviati ad un campo di prigionia in nordafrica,il che avrebbe comportato una lunga prigionia,visto che il rientro sarebbe stato ritardato dal molto probabile trasferimento negli Stai Uniti. Non che la cosa gli dispiacesse più di tanto ma,il pensiero della mamma,sola,lo rattristava alquanto, e poi,Trieste.Solo chi non ha mai subito la “sferza” della sua bora può starne a lungo lontano.
Quando il treno,trainato da una vecchia locomotiva, si trovò tra le montagne della Basilicata,lui ed altri tre commililitoni,tutti triestini,si scambiarono un loquace sguardo e,complice la lentezza del convoglio e la scarsa sorveglianza degli alleati, si buttarono dal treno sui cespugli. A piedi,seguirono le rotaie fino ai pressi della prima stazioncina dove incontrarono un “signore” al quale, con molta cautela e circospezione,spiegarono la loro situazione,pregandolo di poterli sfamare,in cambio delle loro divise in ottimo stato,da sostiture con vecchi,meno appariscenti,vestiti civili.
Li condusse a casa sua e,dopo avergli fornito dei logori stracci,in cambio delle loro divise quasi nuove, li cacciò in malo modo,minacciandoli anche di una denuncia ai Carabinieri,qualora non fossero spariti. Cercarono,subito,di allontanarsi da quel paese e, giunti alla periferia,trovarono un altro signore che, piazzatosi in mezzo alla strada,con l’apparente ed inequivocabile intenzione di non farli proseguire, con modi garbati disse che era a conoscenza del vergognoso trattamento che avevano subito e voleva riscattare l’onore del paese invitandoli a casa sua,almeno per frenare i morsi della loro fame. A casa fu molto cordiale e gli fece assaggiare un vino di sua produzione e,quando la moglie,disse che il pranzo era pronto,si sedettero a tavola dove campeggiava una fumante,enorme,zuppiera di maccheroni fatti in casa,i famosi fusilli,con un invitante condimento rosso…fuoco,da far venire l’acquolina in bocca.Ovviamente pensarono che quel colore rosso intenso fosse dovuto ad una robusta salsa di pomodoro.
Alla prima forchettata si guardarono,tutti e quattro in faccia,non riuscendo ad ingoiare quel ben di Dio,rendendosi conto che il rosso non era dovuto a pomodoro,ma a peperoncino piccantissimo,di cui i lucani sono devoti cultori.
E con …le lacrime agli occhi,sia per la forzata rinuncia,sia per il traumatico impatto delle loro papille gustative con quel fuoco ardente,chiesero scusa al padrone di casa che,magari,non riusciva a rendersi conto che ci fosse gente,al mondo,che non sopportava quel piccante che,per un lucano, era alla portata persino di un bambino.
Ma un triestino non è avvezzo a certi stress… Nella vita,come ci sono “signori” e signori, purtroppo ci sono,anche,sapori e sapori,che non è detto che siano ugualmente accettabili da un lucano e da un…triestino.
Ernesto SCURA