Sento il dovere di ringraziare la mia Gente. In questi giorni ho ricevuto attestati di affetto e ancora una volta, ancora di più, ho percepito la mia cittadinanza di questa Comunità in maniera profonda, viscerale. Totale. Credo che una delle condanne più feroci da infliggere ad un uomo sia l’alienazione dal suo contesto sociale, lo sbiadimento del esserne parte, lo spezzettamento dei segmenti di vita collettiva a cui chiamarlo a partecipare. Se avviene il contrario, più semplicemente, ti senti a casa.
Non posso che iniziare con il ringraziare questo Blog, chi lo ha ideato e gestisce con grande professionalità, trasferendo in rete un pezzo dell’ Acquanova, di Via Nazionale e della Piazzetta e portandoli nelle case dei coriglianesi di tutto il mondo.
Nonostante sia un non frequentatore convinto di Facebook, ho avuto contezza – attraverso le indicazioni di più di un amico- di centinaia di condivisioni dei pezzi che trattavano della mia elezione all’EMSPOD a cui, gradualmente, si aggiungevano i “ mi piace”. Grazie quindi anche alla comunità cibernauta per l’attenzione rivoltami.
Il sindaco di Rossano, città in cui sono nato, mi ha definito come un perfetto rappresentante dell’Area Urbana. Gliene sono grato. Altrettanto grato sono a chi (vedi consigli comunali congiunti, 100 associazioni per l’Unione, PD di Corigliano e Rossano e altri) si sta prodigando per rendere davvero più “grande” il nostro Comprensorio. Ma “Area Urbana”, devo confessare, è termine che non mi piace molto. Lo trovo poco esaustivo, diminutivo, relegabile più ad un limitato ( seppur rispettabilissimo) ambito di tecnici e costruttori. Non rende, da solo, l’Idea. Spero si inizino ad usare –presto- anche espressioni come l ‘“Area storico-culturale” Corigliano- Rossano e poi l ‘“Area Agrumicola”, l ‘“Area Portuale”, l ‘“Area Turistica”, l ‘“Area Sportiva” e cento, mille “aree” ancora.
Non avrei mai pensato di vivere e vedere chiudere il Tribunale di Rossano. Ma neppure di scoprire, finalmente, che riusciamo a ridere di noi stessi: la “Otto&Nove GranTeatro” e la storica compagnia coriglianese “Vincenzo Tieri” strappano lenzuoli, riportano ciucci al loro posto e fanno sfracelli al botteghino. Quando si dice la Cultura! Grazie di cuore per questo.
La EuroMediterranean Society of Pediatrics in Orthpaedics Disorders (EMSPOD) nasce dalla esigenza di una parte del mondo pediatrico internazionale, molto attento alle problematiche muscoloscheletriche dell’età evolutive, di essere sempre più in sinergia con la vasta area dell’ortopedia pediatrica. Si è pensato di dare un largo respiro territoriale, cioè guardando dall’Europa al bacino del Mediterraneo proprio perché riteniamo serva maggiore ricerca in quegli ambiti in cui il sistema dell’apparato locomotore pediatrico è messo ulteriormente a repentaglio: malnutrizione in Africa, obesità infantile in Europa; sfruttamento minorile al lavoro; rachialgie da zaino scolastico; patologie che si ritenevano quasi estirpate che trovano recrudescenza con l’arrivo delle popolazioni migranti, specie infantili (www.epicentro.iss.it/problemi/Tubercolosi/documenti.asp); traumatologia della strada e corretto uso dei caschi etc.
Ci occupiamo di salute dei bambini, insomma. In questo campo, le parole d’ordine e d’obbligo sono: Rispetto, Decisione e Dolcezza. Il mio Maestro, prof. Maurizio Monteleone, diceva sempre che in ortopediatria bisogna essere insieme grandi guerrieri e impenitenti bambini.
Spero di essere all’altezza del compito che avrò l’onore di svolgere. Certo, mi porto addosso, ogni giorno ed in ogni dove, ciò che ho ricevuto nei miei anni di bambino. Qui. A casa nostra. Ho vissuto a Schiavonea di Corigliano, ‘A Marina, per tutti , nei favolosi anni ’70, quando essere bambini era complicatissimo e semplicissimo allo stesso tempo.
Qui ho conosciuto la Tenerezza. Sono cresciuto in un grandissimo giacimento di umanità varia, che oggi, qui voglio ringraziare. Con rispetto e commozione.
Nella Schiavonea degli anni ’70, per noi esistevano soltanto due stagioni: la prima era quando il mitico Gigino Scarpello del bar della Chiesa metteva fuori al sole i tavolini di plastica, l’elefantino bianco e il cavallo nero a motore, pronti a farti volare per cento lire ma occupati spesso dai figli dei bagnanti, e la seconda quando li ritirava nella sala posteriore del bar, in un letargo fumoso di esportazioni senza filtro e birre, dove la gente si scannava, mentre fuori pioveva, sul fatto che fosse meglio giocare a stecca o a boccette.
Difronte al bar, a somministrare benzina odorosa di piombo, magari alle 500 col cofano aperto anteriormente, Mastro “Biase” Frasca vegliava sereno, con mani nodose e poche parole sui nostri palloni bucati, sulle camere d’aria sgonfie, e i copertoni sfiancati dai tacchetti dei freni che schiacciavamo con i piedi. Mastro Biase era considerato una figura quasi mitologica, in grado di aggiustare qualsiasi foratura. Era un idolo, insomma Mentre lavorava attaccando le “pezze a fuoco” (che i ragazzi che venivano da Corigliano in vacanza le chiamavano inspiegabilmente “Tip-Top”), attorno regnava il più assoluto silenzio. Un grande aggiustatutto . Non c’era passaggio sbagliato a calcio in cui, con la mano a fianco della bocca, non venivi inviato a passare dalla sua officina per un’aggiustatina al piede. Lì davanti, alle quattro, sarebbe passato Don Carlo Cardile, sempre elegante sulla bici, pronto ad alzare la saracinesca del suo emporio. Quello era davvero il nostro Paese dei Balocchi: il regno dei ritrattini, in cui entravi e uscivi nel medesimo istante, scartando la bustina incollata a Modena da Panini per tuffarti in un voluttuoso, cantilenante “ ‘u tiegn, ‘u tiegn, mi manca, mi manca, doppione, doppione vint votɘ”. Questo spesso sotto casa di don Gigino De Gaudio, che ricordo in un impermeabile di pelle nero impegnato per una vita ad emancipare persone. Non distante abitava zio Gianfranco Varani, un vero professionista, con gli occhi di una profondità sconcertante. D’inverno veniva a casa nostra e cucinava il risotto padano con la “ soppressa” e parlava con me. Voleva essere sepolto sulle rive del Po. E dopo aver tirato su mezza Schiavonea, lì se ne andato. E lì, nel cimitero di Revere, tra le nebbie del suo Fiume sono spesso passato a salutarlo.
Allora eravamo questo: pidocchi, supersantos, mazz’ e pizz, (trad. coriglianese: mazz’e trugghj), staccia, ritrattini, jumara con girini, bagnanti, zii germanesi che tornavano, pozzi neri che scoppiavano. ‘A Fera a Maggio, dove vedevamo venditori tarantolati sbattere piatti infrangibili e quella dei Morti, in cui stuzzicare il bestiame, magari a pietrate. A ra Marina, tutto era vecchio e nuovo, ma doppione sempre: c’erano ‘i cas popolar nove, e ‘i cas poplar vecchie, ‘i scol nov e ì scol vecchie.
La domenica, sacra, dedicata al pallone.
La fortissima “Marina” pranzava presto in un ristorante a Rivabella, nella pineta(!) , sotto lo sguardo accigliato dell’accompagnatore ufficiale, Pippin ‘U Vascij: bistecca e purè, poi tutti al Maria ad Nives, che si stagliava, come un Bernabeu dei poveri, dove oggi c’è il ….Nulla, a gridare “ alè delfini! o jamm ca ghe mmatur!!” distrutti dalla tramontana.
Nel mio vicinato, viveva Zà Tresia, (mamma dell’attuale assessore Benito Apicella), una donna coraggiosissima, monumento di una società che chiedeva, allora come oggi, alle donne il sacrificio totale, che mi tenne premuto forte il grembiule contro la fronte, fermandomi il sangue e non volendomi dare a nessuno, quando a sei anni una pietra mi spaccò la testa. Più in là, la sig.ra Carmina Iaquinta non ti negava mai un sorriso e un bacio e se sconfinavi verso la strada, c’era, pronta a darti lo stop, la sempre fine sig.ra Caravetta.
Era la Schiavonea dei morti a mare, dei primi marocchini, della salsa fatta ancora per strada nei fustoni saldati, delle rimesse degli emigranti, che tornavano con i cofani pieni di lattine di birra calda e cioccolata squagliata sui bordi di carte lilla. Se avevi la febbre, avevi il vicinato in casa.
Le Persone che ho qui ricordato, insieme a tutte le altre, hanno vissuto vite complesse, senza mai lesinare a noi piccoli, alcuna dolcezza.
“Bisogna essere duri senza mai dimenticare la tenerezza”, sognava Il Che. E Papa Francesco: “la tenerezza, non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di Amore”.
Spero di portare sempre con me la loro lezione, impartitami nei pomeriggi di sole e ginocchia sbucciate.
Per intanto li ringrazio.